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sabato 21 aprile 2012

LE TESSITRICI ( Capitolo II)





Capitolo II










SIMONA

(SEMPRE MAMMA  MI DISSE   -LE BOTTE SO’ COME LA GUERRA ,   
MEGLIO  PASSA’ PE’  FESSA , C'ARMANE’ STESE  ‘NTERRA!)





 
Simona si sentiva diversa dalle altre, non si considerava una tessitrice.   

 Aveva accettato di partire perché desiderava un po’ di tranquillità,
con questo viaggio sperava di trovarla.                                                                                                     
Ora che la nonna non c’era più, e tutti la ritenevano pazza, aveva più che mai bisogno d’allontanarsi.
 Procedeva silenziosa, con passo deciso e svelto. Camminando macinava pensieri. Ed era così immersa in questo suo soliloquio silenzioso, che non si era neanche accorta del sole, ormai salito in cielo la lunghezza di una canna, e del mattino fattosi chiaro, tanto che ormai si vedevano fin lontano le curve bianche della strada che saliva. Nitida fino in cima, serpeggiante tra verdi alberi e ancor più verdi prati. Il colore che preferiva. Tutta l’infanzia ci aveva passato nel verde.         
Il colore della speranza, si dice. Ma lei ci aveva vissuto da disperata.                          
Però c’era la nonna. Se la portava appresso, raccontandole favole magnifiche. Un’attrice davvero. Sapeva fare pause e sospiri che la tenevano appesa alle parole, tanto che quasi aspettava davvero che passassero i sette passi  e le sette morti, che volasse via l’uccellino d’oro dalla gabbia, e la fanciulla andasse sposa al re. Sempre incantava. La nonna dalla chioma tutta bianca, che si era fatta tagliare pari, sopra le spalle, dalla nipotina. Perchè un po’ le piaceva andare contro corrente. La nonna, che le aveva permesso di sopravvivere alle botte del padre, il quale ci teneva tanto a darle una buona educazione.
Sua mamma era svanita quando era ancora piccola.
Morta, le dissero. All’ospedale. Ma  non l’aveva vista andare via.
Dissero che era partita all’alba, mentre lei ancora dormiva.
Non la vide tornare mai.                                                                                                   
 Certo che di botte ne aveva prese anche quella poveretta, e la vecchia nonna l’aveva difesa un po’ fiaccamente, perché chi gliele dava era pur sempre suo figlio.
 La nonna, che tipa! Ma quante favole le sentì raccontare! Da saziarsene abbondantemente. Da farne una scorpacciata. E, mentre narrava, la vecchia infilava collane di peperoni rossi e verdi, a corno di bue; peperoncini piccanti a pallina o a punta; aglio bianco e aglio nostrano; trecce di cipolle, corone di erbe aromatiche essiccate, mozzarelline affumicate, salsicce di carne e salsicce di fegato. Anche salsicce matte. Così le parole delle favole prendevano colori e sapori, secondo l’intreccio che la vecchia di volta in volta faceva, seduta sulla sua sedia di paglia, all’aperto, con uno strofinaccio sulla testa per ripararsi dal sole, senza guardare Simona, ma tenendosela tuttavia accanto.


 
 
 
 
 C’era la nonna, poi non ci fu più.                                                                          


                             
Quando morì, Simona cominciò ad avere quel tic strano, quella smania d’infilare anche lei aglio, cipolle, peperoni e quant’altro.
Non riusciva più a fermarsi: infilava perfino fiori, conchiglie, vermi, fette di pane, fogli di quaderni, pagliuzze e sterco secco.                                                                                                                                                                                                
E cominciarono a dirla matta.
Per questo la bella ragazza, con le curve giuste da far girare gli uomini, stanca di dimostrare che la testa non l’aveva persa, pur non considerandosi una tessitrice, volle partire con le altre.












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