FINESTRE APERTE
Ho raccolto alcuni brani scritti in
momenti diversi della mia vita, ma che hanno un filo comune: la casa. Ho
ritrovato il casolare in cui sono nata, la vecchia casa in paese, l’appartamento
da sposata, quella abitata con i miei suoceri. Ma c’è anche la casa intesa come
spazio sognato e quella che ci accoglie all’origine: il ventre materno.E, poiché siamo come lumache e ci
trasciniamo tutti una casa, mi è piaciuto metterle insieme e offrirle a te, che
ora mi leggi: per curiosità, per caso, domani per ricordarti di me.Chiunque tu sia, sappi però che sono
solo finestre aperte, finestre che io ho spalancato e dentro le quali , se
vorrai,potrai guardare.Scoprirai qualcosa, ma non tutto.
Molto, se vorrai, dovrai intuire.Da parte mia, posso solo
ringraziarti perché non mi lasci sola.D’altra parte era proprio ora di
aprire le mie finestre, perchè io mi sentivo morire, perchè dovevo fare entrare
un po’ d’aria e di luce.
Volevo anche affacciarmi a guardare.
Il nascondiglio
Me ne stavo rannicchiata in
quell’angolo scuro della cantina, nascosta tra un vecchio armadio e sacchi pieni
di non so più che cosa. Avevano smesso di cercarmi.Le loro voci, prima affannate e
lontane, adesso diventavano chiare.Riuscivo a comprendere le parole,
ascoltare i sospiri.Probabilmente si stava facendo buio
e per questo tornavano a casa, disperati e rassegnati, non immaginando quanto
fossi vicina.
Non avevo più paura. Li sentivo non arrabbiati
con me, ma preoccupati per la mia sorte.Però non mi decidevo ad uscire dal
mio riparo, diventato per me quasi una prigione.Tutto per un gattino pieno di pulci!
Mio padre, qualche ora prima, dopo avermelo visto di nuovo in braccio, aveva perso la pazienza e mi aveva lanciato il cappello.
Mio padre, qualche ora prima, dopo avermelo visto di nuovo in braccio, aveva perso la pazienza e mi aveva lanciato il cappello.
-Massere!- era stata la sua
minaccia, e non aveva aggiunto altro.
-Stasera!- E questa parola mi era
cresciuta dentro, facendomi tremare.
Mia madre stava
sistemando le fascine, M' attaccai alle sue gonne.
-Vattene, pi piacire! La legna te
po’ pizzicà!-
Povera mamma! Non poteva immaginare la mia paura.
Mi ero sentita persa. Ero corsa
affannosamente verso la cantina, scendendo precipitosamente i gradini che vi
conducevano e scegliendo l’angolo più buio, quello che poteva nascondermi meglio e mettermi
in salvo.
Poi ,lì, a lungo, immobile, finché improvvisamente
ebbi la sensazione che il tempo si era fermato, che avevo varcato i confini
dello scorrere delle ore e dei fatti.E finalmente non avevo più paura,
non solo per le voci che sentivo amiche, anche perché quel luogo e quel momento
mi erano diventati estranei.
Sentivo il cuore battere, i pensieri
scorrere, ma questi avvenimenti accadevano dentro il mio corpo: la realtà
esterna era sospesa, mi sentivo cosa viva in un mondo inesistente.Ma forse ero assente anche a me
stessa. I miei sensi sembravano essersi allontanati, come appartenenti a
qualcun altro.Veramente presente era solo la mia
mente.
Sarei potuta rimanere ferma
all’infinito, lasciare il mio corpo come una casa disabitata, partire per un
lungo viaggio, senza attraversare alcuna terra, o mare, o cielo.Stavo imparando il gusto di
camminarmi dentro, di conoscermi oltre l’apparenza, di scoprire la mia anima.
Alcuni pensano che sia un percorso
pericoloso, una specie di malattia che può farci perdere. Però mi piaceva.Altre immobilità amavo e amo ancora.
A volte rimango fissa, lasciandomi
penetrare dal mio ambiente. Di nuovo la natura diventa il mio sangue e la mia
carne, il mio respiro.Sento gli alberi crescermi dentro.
Mi trasformo in vento e sole, terra scura, arata di fresco.Il limite del mio corpo si sposta,
scompare qualsiasi separazione tra il mio dentro e il fuori.
E mi ritrovo a non essere né l’uno, né
l’altro, pur ben sapendo di esistere.
Riesco a perdermi anche in altri
ambienti, posti dove, immedesimarsi è proprio meno romantico, dove non c’è
bellezza e non c’è armonia. Nemmeno un po’ di pace.Luoghi affollati di gente che grida,
o magari ride, che corre affannata o s’incanta a guardare.Sempre, se voglio, il mondo può venirmi
dentro, ed io gli lascio il posto e vado via.
Deve esistere un luogo, una vita
parallela che, invisibile, pure ci circonda.Un mondo senza confini, senza
spazio, né tempo, che ci comprende sempre, perché già ci contiene in ogni
nostra possibilità di essere.
A volte, mi pare di sentirne la
presenza …
-Fia mì! … Core mì! … duva stì!!!!-(
figlia mia, cuore mio, dove sei?)Il grido di mia madre bucò il mio
silenzio.Mi chiamò con tale forza da
raggiungermi e obbligarmi a uscire, quasi partorendomi di nuovo.
Balbettai – ecme!- ( eccomi)
Tremavo. Vennero a prendermi e
finalmente mi portarono via dal mio nascondiglio.Avevo le gambe indolenzite e il viso
tutto bagnato di lacrime.Quanto mi festeggiarono!
Mamma mi mise seduta sulle sue gambe,
fece portare la scatola di cartone, quella dove aveva riposto le poche cose
d’oro che possedeva, e cominciò a ornarmi con le sue catenine.Le mie sorelle e i cugini mi stavano
addosso, incuriositi e un po’ gelosi di tanta immeritata attenzione.Dietro di me, la presenza di mio
padre, come sempre, mi dava forza.In cerchio, intorno, gli altri si
erano raccolti in più file.
Eravamo una famiglia numerosa,
ventiquattro parenti sotto lo stesso tetto: zii, nonni, cugini…Erano stati tutti a cercarmi,
avevano frugato con lunghe canne fin dentro il fosso.
Che regalo prezioso avevo ricevuto!
……………
Ancora oggi, dopo tanti anni, mi
sorprendo a desiderare fughe e ripari.Tuttavia mi trattengono i legami, la
necessità della mia presenza.Mi trattiene ancora di più la mancanza
di un urlo che non potrà mai più raggiungermi, un grido che non potrà più
cercarmi.
C’è un’altra voce ,ora ,che spesso
mi vuole, mi lusinga: è la mia.L’antico bisogno di chiusura non si
è mai placato.Appena posso, mi rintano e salgo
strette scale a chiocciola impolverate, cunicoli lunghi e bui.Fatico dentro labirinti familiari,
dai percorsi sconosciuti, cambio direzioni, deviazioni: è sempre una grande
avventura.Il mio corpo pare in perfetta
tranquillità, mentre mi rovisto dentro.
Più di una volta mi sono inventata
una chiamata inesistente per tornare alla luce, per riconquistarmi i sensi e
aprirmi la porta al reale.Vale la pena sempre.
Ci sono affetti più forti di ogni
paura, più caldi che qualsiasi nascondiglio.
( Milvia Di Michele)
:::::::::::::::::::::::::::::
C’era un orto dietro la vecchia
casa.
Era un rettangolo stretto di terra, isolato da una fitta siepe che lo circondava su tre lati. In mezzo alla siepe si facevano posto un grande albero di alloro, uno più piccolo di melograno e un’altissima pianta di sambuco con i cui frutti, noi bambini, giocavamo sporcandoci sempre con nostra grande soddisfazione. Limitavano l’orto anche il nostro gallinaio, vicino al quale mio padre faceva la “ role” di piantine di pomodori e il muro della stalla dei nostri vicini, coperto, in parte, da folti rami di rosmarino.
Mi piaceva andarci. Osservavo crescere gli ortaggi: rettangoli di rape, finocchi, insalata riccia e a foglie larghe, carote.
Verso la fine dell’estate, la capanna ricopriva tutto l’orticello come una tettoia golosa e profumata: grappoli di uva nera e, più su, di colore bianco oro, si gonfiavano tra i pampini ancora verdi e lungo i pali di cemento attorno ai quali si attorcigliavano le viti.
C’era un angolo che però non amavo, anzi era la mia grande vergogna: vicino al gallinaio c’era una casetta di legno stretta e alta, coperta da una tendina ricavata da un sacco vecchio. Quello era il nostro bagno. Non avevamo altro.
A lavarci ci adattavamo in casa con bacinelle e brocche, ma per il resto era tutto lì.Ed i tempi erano già diversi.
Fu così che cominciai a fantasticare e abbellii con l’immaginazione quello che neanche il più bravo pittore avrebbe potuto rendere bello. Fantasticavo e immaginavo, infine ci credetti anch’io e dissi tutto alle mie amiche.
Mi invidiarono. Ben presto quella casetta diventò per me motivo di vanto. Tutte avrebbero voluto poter raggiungere, attraverso quello strano e inadatto ingresso, il paese delle fate che invece era accessibile solo per me, perché io ne ero la proprietaria.
Raccontai di ampi prati verdi dove l’erba era più morbida e alta che altrove, di amici che avevano il dono della magia e che, ogni giorno, mi invitavano alle loro feste e mi offrivano dolci squisiti mentre, intorno a noi, si diffondeva una dolce musica.
Per loro ero importante, mi ascoltavano sempre con grande interesse. Ero l’ospite più atteso e desiderato della terra.
Poi si faceva sera e si tornava a casa. Ognuno alla sua casa.
Ricordo l’amaro in bocca, mentre facevo finta che andasse tutto bene e il mio viso assumeva quella strana aria di sufficiente contentezza dipinta sul volto di quelli con cui la vita è un po’ più in debito.
Ma questo, allora, io non lo sapevo.
Pensavo che la nostra famiglia fosse povera per colpa nostra e, vergognandomene, cercavo di nascondere agli altri questo gran peso.
Comunque, per qualche tempo, riuscii a convincermi che non mi mancava niente, che addirittura ero più fortunata di altri.
Andò avanti così per un po’, ma non poteva durare per sempre.
Facevo sempre più fatica ad inventare le incredibili avventure che volevo accadessero dentro quella strana tenda di tela di sacco. Le mie amiche iniziarono a dubitare e, pian piano, persero interesse ad ascoltare le mie storie.
D’altra parte anch’io ero un po’ stanca e un po’ pentita.
Finì tutto lentamente, quasi in modo naturale.
Mi rimase però una specie di insegnamento, una linea di comportamento da seguire. Da allora imparai, ogni volta che qualcosa mi rendeva triste, a fare finta di niente. Annullavo l’accaduto. Se non mi riusciva mi spostavo altrove con un grande volo di fantasia.
Creavo sogni anche di giorno ed erano uno più bello dell’altro.
La notte, però, prendevano vita indipendentemente da me e sapevano di realtà più che la realtà vera: c’erano fantasmi e mostri che mi tormentavano, rancori ed odi e, sempre presente, l’immagine della morte con la sua falce d’argento in mano.
Furono anni pieni di sofferenze.
Intanto gli altri tracciavano le linee della loro vita, e mi parevano tutte dritte, tutte in salita.
Quante curve, la mia! Mi si aggrovigliava addosso perché non riuscivo a tornare dentro di me. La fuga dalla vita reale non era più un gioco, era una specie di malattia che in parte ho vinto, ma che ha, a volte, dei ritorni.
Perchè questo mio racconto?
Vedi , i bambini hanno una grossa magia e per non soffrire sanno andare dove il dolore ha fine.
Non fuggono la realtà, la vincono inventandosi mondi fantastici.
Anche i grandi, a volte, sanno farlo.
Ascolta ora un mio sogno. Non uno di quei deliri notturni che spesso mi piace raccontare: una goccia di futuro.
Ascolta: immagina l’anno 9999 ( la data la puoi anche cambiare)
La terra sarà certamente diversa. Strane città per il gusto di oggi, strano modo di vestire.
Forse strani uccelli solcheranno un cielo più ricco di colori. Pianta nuove e nuovi fiori.
Non ci saranno più alcune specie di animali, altri saranno più grandi, altri ancora di dimensioni minori.
Ci saremo sicuramente ancora noi:più sereni, più belli meno stanchi.
Avremo meno malattie, parleremo più dolcemente.
Ci sarà per ognuno la sua occasione ed il suo tempo.
Ci aspetteremo a vicenda.
Andremo ogni giorno a parlare con i nostri morti. Poi saluteremo i nuovi nati.
E, non sapendo ancora cosa siano la vita e la morte, faremo di noi grandi cerchi per parlare e cercare di capire.
Saremo tutti piccoli Dei mortali perché ognuno avrà recuperato se stesso.
Sarà l’anno 9999
( la data la puoi anche cambiare)
Era un rettangolo stretto di terra, isolato da una fitta siepe che lo circondava su tre lati. In mezzo alla siepe si facevano posto un grande albero di alloro, uno più piccolo di melograno e un’altissima pianta di sambuco con i cui frutti, noi bambini, giocavamo sporcandoci sempre con nostra grande soddisfazione. Limitavano l’orto anche il nostro gallinaio, vicino al quale mio padre faceva la “ role” di piantine di pomodori e il muro della stalla dei nostri vicini, coperto, in parte, da folti rami di rosmarino.
Mi piaceva andarci. Osservavo crescere gli ortaggi: rettangoli di rape, finocchi, insalata riccia e a foglie larghe, carote.
Verso la fine dell’estate, la capanna ricopriva tutto l’orticello come una tettoia golosa e profumata: grappoli di uva nera e, più su, di colore bianco oro, si gonfiavano tra i pampini ancora verdi e lungo i pali di cemento attorno ai quali si attorcigliavano le viti.
C’era un angolo che però non amavo, anzi era la mia grande vergogna: vicino al gallinaio c’era una casetta di legno stretta e alta, coperta da una tendina ricavata da un sacco vecchio. Quello era il nostro bagno. Non avevamo altro.
A lavarci ci adattavamo in casa con bacinelle e brocche, ma per il resto era tutto lì.Ed i tempi erano già diversi.
Fu così che cominciai a fantasticare e abbellii con l’immaginazione quello che neanche il più bravo pittore avrebbe potuto rendere bello. Fantasticavo e immaginavo, infine ci credetti anch’io e dissi tutto alle mie amiche.
Mi invidiarono. Ben presto quella casetta diventò per me motivo di vanto. Tutte avrebbero voluto poter raggiungere, attraverso quello strano e inadatto ingresso, il paese delle fate che invece era accessibile solo per me, perché io ne ero la proprietaria.
Raccontai di ampi prati verdi dove l’erba era più morbida e alta che altrove, di amici che avevano il dono della magia e che, ogni giorno, mi invitavano alle loro feste e mi offrivano dolci squisiti mentre, intorno a noi, si diffondeva una dolce musica.
Per loro ero importante, mi ascoltavano sempre con grande interesse. Ero l’ospite più atteso e desiderato della terra.
Poi si faceva sera e si tornava a casa. Ognuno alla sua casa.
Ricordo l’amaro in bocca, mentre facevo finta che andasse tutto bene e il mio viso assumeva quella strana aria di sufficiente contentezza dipinta sul volto di quelli con cui la vita è un po’ più in debito.
Ma questo, allora, io non lo sapevo.
Pensavo che la nostra famiglia fosse povera per colpa nostra e, vergognandomene, cercavo di nascondere agli altri questo gran peso.
Comunque, per qualche tempo, riuscii a convincermi che non mi mancava niente, che addirittura ero più fortunata di altri.
Andò avanti così per un po’, ma non poteva durare per sempre.
Facevo sempre più fatica ad inventare le incredibili avventure che volevo accadessero dentro quella strana tenda di tela di sacco. Le mie amiche iniziarono a dubitare e, pian piano, persero interesse ad ascoltare le mie storie.
D’altra parte anch’io ero un po’ stanca e un po’ pentita.
Finì tutto lentamente, quasi in modo naturale.
Mi rimase però una specie di insegnamento, una linea di comportamento da seguire. Da allora imparai, ogni volta che qualcosa mi rendeva triste, a fare finta di niente. Annullavo l’accaduto. Se non mi riusciva mi spostavo altrove con un grande volo di fantasia.
Creavo sogni anche di giorno ed erano uno più bello dell’altro.
La notte, però, prendevano vita indipendentemente da me e sapevano di realtà più che la realtà vera: c’erano fantasmi e mostri che mi tormentavano, rancori ed odi e, sempre presente, l’immagine della morte con la sua falce d’argento in mano.
Furono anni pieni di sofferenze.
Intanto gli altri tracciavano le linee della loro vita, e mi parevano tutte dritte, tutte in salita.
Quante curve, la mia! Mi si aggrovigliava addosso perché non riuscivo a tornare dentro di me. La fuga dalla vita reale non era più un gioco, era una specie di malattia che in parte ho vinto, ma che ha, a volte, dei ritorni.
Perchè questo mio racconto?
Vedi , i bambini hanno una grossa magia e per non soffrire sanno andare dove il dolore ha fine.
Non fuggono la realtà, la vincono inventandosi mondi fantastici.
Anche i grandi, a volte, sanno farlo.
Ascolta ora un mio sogno. Non uno di quei deliri notturni che spesso mi piace raccontare: una goccia di futuro.
Ascolta: immagina l’anno 9999 ( la data la puoi anche cambiare)
La terra sarà certamente diversa. Strane città per il gusto di oggi, strano modo di vestire.
Forse strani uccelli solcheranno un cielo più ricco di colori. Pianta nuove e nuovi fiori.
Non ci saranno più alcune specie di animali, altri saranno più grandi, altri ancora di dimensioni minori.
Ci saremo sicuramente ancora noi:più sereni, più belli meno stanchi.
Avremo meno malattie, parleremo più dolcemente.
Ci sarà per ognuno la sua occasione ed il suo tempo.
Ci aspetteremo a vicenda.
Andremo ogni giorno a parlare con i nostri morti. Poi saluteremo i nuovi nati.
E, non sapendo ancora cosa siano la vita e la morte, faremo di noi grandi cerchi per parlare e cercare di capire.
Saremo tutti piccoli Dei mortali perché ognuno avrà recuperato se stesso.
Sarà l’anno 9999
( la data la puoi anche cambiare)
( Milvia Di Michele)
................
I sapori della solitudine
Domenica. E finalmente sono sola in casa.
Neanche mangerò, per non sporcare nemmeno un piatto.
Berrò, forse, solo un po’ di latte.
Che bella sensazione di pace!
Che sollievo questo silenzio che si dilata di stanza in
stanza: silenzio consolatorio.
I miei pensieri sono liberi di costruirsi, intrecciarsi,
portarmi da un luogo ad un altro, da un tempo ad un altro.
Che mi manca?
In tanti hanno paura della solitudine, io no. Sono altre le solitudini che temo.
Mi capita di sentirle nel cuore e nell’anima, scoppiarmi
dentro disorientandomi e facendomi sembrare la realtà un sogno.
Mi accade quando scopro che le persone con cui vivo non
mi raggiungono, nèio comunico con loro.
Confusioni di egoismi e invadenze mi circondano, mi
frantumano senza pietà. Ognuno vede solo se stesso e la sua affermazione e ci
si calpesta l’un l’altro, ma senza cattiveria.
La disperazione è altra cosa.
Per questo amo il silenzio e sto bene da sola.
Ho imparato da tempo il suo sapore.
Era un’altra epoca, un altro ambiente.
Avevo attorno colline e non mura, alberi e ruscelli al
posto dei balconi.
E poi acqua ed erba … erba … erba.
C’era una grande intesa tra me e la natura.
Mi pareva di essere un po’ terra e un po’ cielo, un po’
foglia tremante, o tronco ruvido di quercia.
Nostalgia.
Voglia di tornare in luoghi persi, persa, ormai,
definitivamente, anch’io.
Pure, quello è ancora il mio vero territorio, il mio
humus.
Lì affondo ancora le mie radici per crescere.
Terreno fertile, annaffiato non d’acqua piovana, ma da
lacrime pudiche mai versate,
scaldato non dal sole, ma da affetti certi e dolci
ricordi.
Solitudine piena.
Certo, questa di oggi è altro.
E’ assenza di dolore, è pace. Somiglia a casolari
abbandonati, a templi corrosi dai secoli, pure ancora viventi e testimoni di
una storia mai del tutto superata.
L’altra era acqua di cascata, frescura d’ alberi,
incanto.
Era attesa di grandi eventi, vitalità a stento repressa e
trattenuta, come corsa frenata di focosi cavalli.
Ma le epoche della nostra vita hanno stagioni diverse e
non c’è speranza di ritorno.
Odio questo accontentarmi, questo accettare rassegnato.
Uscirò. Saluterò la gente per strada, anche quella che
non conosco.
Poi arriverò al mio mare.
Ricorderò cosa cerco e mi manca.
E, di nuovo, non saprò dirlo ad alcuno.
Sola, come sempre, ma colmi i miei occhi d’azzurro e di
luce.
( Milvia Di Michele)
.....................
Il patto
Quando venni ad abitare nella casa dei miei suoceri, ho
rispettato un patto.
Avevamo deciso, mio marito ed io, che dopo aver vissuto
due anni da soli, saremmo tornati ad abitare nel nostro paese, alla loro casa.
Non necessario raccontare i motivi che mi portarono a
mantenere la mia promessa, anche perchè non li ho capiti mai tutti.
Io dovevo rispettare un patto e così feci.
Piansi un po’ prima di abituarmi, poi pian piano mi
rassegnai, infine mi sono affezionata a questa casa che, dopo tanti anni, sento
anche mia. A questa gente che va e viene.
Qui vivevano i nonni di mio marito e qui tornano tutti i
suoi parenti, quasi alla ricerca delle proprie origini.
Noi andiamo poco a trovarli, vengono loro, spesso.
E’ brava gente. Conosco a memoria le loro storie passate
e presenti, storie che girano, immancabilmente, intorno a quella di mio marito,
da tutti ritenuta molto importante.
-Mamma, oggi sono venuta da te, perché finalmente voglio
ascoltare la mia storia.
Com’ero quando sono nata? Bella? Quali sono state le mie
prime parole? Ero allegra? Mi volevate bene? Mi volevi bene tu?
Mi guardi incredula. Ti meraviglio sempre un po’, io.
Ricordi quando,sapendo di essere incinta, mi carezzavo la
pancia e parlavo con la mia creatura, viziandola già, perché,per me era la più
bella del mondo?
Tu non volevi, mi dicevi che avrei dovuto vergognarmi.
Non sono bellissime le mie due figlie? Dunque?
Sorridi, non mi comprendi, ma mi accetti.
Mamma … perché è più importante l’infanzia di mio marito
della mia?
Perché intorno a lui fanno cerchio i suoi cari, mentre io
mi sento sola?
Ci sono delle volte che so di aver ragione, mille volte
ragione.
Ma mi chiedono tutti di capirlo.
Io non voglio più capire, ho rinunciato pure ad essere
capita.
Già, anche per te è così.
Una buona moglie fa questo: rende felice il proprio
marito e mantiene unita la famiglia.
Anche tu hai fatto così, sempre.
Da quanti anni? Più di cinquanta, ormai.
Non ti pesano … questi anni?
Ci guardiamo. Per non dirci bugie, restiamo in silenxzio.
E’ bella mia madre, anche ora che è vecchia.
Mi sono sbagliata, credo proprio che mi capisca, forse ci
siamo sempre capite.
Torno a casa.
Mia suocera sta sbucciando piselli, insieme ad una zia.
Tutta infervorata sta dicendo: mio figlio, quando era
piccolo … che carnagione fine!-
( Milvia Di Michele)
......................
Sogno di una partenza
Non ho fame.
Anzi, il digiuno mi dà una sensazione di leggerezza che
mi piace.
Mi sento quasi fatta d’aria.
Sto bene, anche se ho un po’ paura.
La strada è piena di gente: persone che conosco bene.
Fino a ieri facevo parte della loro vita. Ora mi negano
lo sguardo: andandomene, mi hanno rifiutata.
Prima ancora che io li lasci, è già come non ci fossi.
Pure cammino tra loro.
Di tanto in tanto qualcuno pare accorgersi di me, ma
nessuno mi sorride. Pensano. Osa andarsene, sta allontana dosi.
Sto bene, anche se ho un po’ paura.
So che ci saranno giorni difficili : non avrò da
mangiare.
C’è il dottore che mi aspetta nella sua casa, è
obbligatorio passare da lui prima di andarsene. Pare che ognuno debba farlo,
anche se non conosco qualcuno che sia andato via, che possa spiegarmi come si
parte.
Ecco, mi fa entrare. C’è un grande tavolo attorno al
quale sedere.
Mi si mette vicino, ha uno sguardo dolce. Gli altri due
non li conosco, saranno suoi assistenti. Non mi piacciono, sono freddi, non si
interessano alla mie parole.
-Dottore, vale la pena?-Gli chiedo.
-Certo, sei coraggiosa-
So che vorrebbe proteggermi, però io devo andare e lo
sappiamo entrambi.
-Ascolta - mi dice- potrai venire quando vorrai, troverai
sempre qualcosa da mangiare-
Strani messaggi i suo e, senza accorgermene, anch’io
glieli rendo.
Mi guarda con tenerezza, come fosse innamorato:- verrai?-
Vado via. Continua la mia sensazione di preoccupata
felicità.
Devo passare da mio marito, ce ne andremo insieme.
Non mi meraviglio dell’assenza delle mie figlie, né di
quella dei miei genitori e dei miei parenti: loro non sono in questa dimensione,
sono rimaste con me nell’altra.
Ecco, davanti a questa porta avrei dovuto trovarlo.
Non c’è. Lo intravedo dentro la stanza. E’ carino con la
sua camicia bianca e le maniche piegate su, come chi è accaldato da troppo
lavoro.
Mi ha visto- non vieni?- gli chiedo.
-Non posso- risponde, e il suo sguardo è severo.
Arretro sorpresa. Riprendo fiato: l’avrei voluto con me.
E mi accorgo di essere stata sempre sola, da quando il
mio viaggio è cominciato.
Ci saranno giorni peggiori: non avrò da mangiare.
Intanto sto bene così, anche se ho un po’ paura.
Sto uscendo dal mio sogno, la luce del giorno mi va
aprendo gli occhi.
Mio marito,accanto a me, dorme ancora.
Lo guardo e avrei voglia di chiedergli:
-perché non sei venuto con me?-
( Milvia Di Michele)
................
Il quadro
Quel quadro!
L’acqua del mare riempiva quasi due terzi della grande
tela rettangolare usata perpendicolarmente.
Trasparenze verdastre ne lasciavano intuire la
profondità.
Pareva di sentirne la frescura. La sua immagine mi
entrava, attraverso lo sguardo, fin dentro l’anima.
In alto, dello stesso colore, ma più leggero e luminoso,
si apriva il cielo.
Mi godevo ogni pennellata dell’artista, scrutavo ogni
sfumatura.
Lo avrei rubato. E non solo per la sua bellezza.
Sentiva che mi aderiva, che appagava i miei bisogni più
veri.
Mi placava guardarlo, come un tempo mi placavano antiche
ninna-nanne.
Era un abbraccio materno, protettivo, che tuttavia non mi
teneva a forza.
Bastava spostare la direzione dei miei occhi dall’acqua
all’aria, per assaporare una grande sensazione di libertà.
Sarà che sono innamorata del mare.
Pare aspettarmi quando gli vado incontro. Sempre.
Quel quadro!
Mi viene in mente inatteso, a un anno di distanza
dall’averlo visto.
E scopro intatta la gioia allora provata.
Probabilmente dell’inizio del novecento, dipinto bene,
con professionalità.
I suoi colori mi facevano pensare all’infanzia.
Non strettamente alla mia, non poteva perché l’ho vissuta
tra valli e colline, lontane purtroppo dal mare.
Pure, il verde del grano a primavera, quando ancora il
sole non l’ingiallisce e il vento ne muove gli steli, mi pare somigli un poco
al suo colore.
Mi ricordava l’infanzia perché sapeva di buono, di
desiderati ritorni, di fermata.
Benchè le onde fossero larghe e in movimento, mi
raggiungeva una pace che andava oltre il tempo scandito, oltre le cose.
-Eccomi mare, abbracciami ancora. Sono tornata. E dolce è
la tua carezza che mi bagna-
C’è da imparare dal mare!
Ma più che il desiderio di sapere, mi ha portata la
necessità di riconquistarmi, di ritrovarre affetti ed emozioni creduti
dimenticati.
Ieri hai abbracciato quell’uomo. E’ rientrato in te,
rifiutando la sua esistenza. E tu gli hai aperto le misteriose porte
dell’inizio e della fine.
Mi trovo disorientata, non riesco ad associarti
sensazioni di paura e di morte.
Ma c’è chi viene da un altro viaggio, un lungo viaggio
dentro la sofferenza.
E la tua acqua, per loro si fa nera.
Perché non sono solo il sole e il cielo a darle colore.
Anche i nostri sentimenti.
Comincia la bella stagione.
Incontro qualcuno che, raccolto, lo sguardo su di te,
cammina lentamente.
E i passi hanno un senso e vanno lontano.
Mi scuote la gioia di un bimbo che gioca con il suo cane.
Rido dentro con lui.
Ecco, mi riconosco.
In questa solitudine, ogni volta mi ritrovo.
Per poi perdermi di nuovo nell’altra grande solitudine
della vita che corre e calpesta.
Né si può evitare di essere travolti.
Il mare …
Ma so di parlare di te.
E’ presto per riuscire a farlo apertamente,
spudoratamente.
Posso solo dire di alcune cose che ti somigliano, come
nei sogni, quando la realtà assume volti diversi e veste, nascondendoli, i
nostri segreti.
Per renderne accessibile l’espressione.
Mi sei mancata da pochi mesi, ma per me sei più viva di
prima.
La tua presenza si è come dilatata, mi accompagna
ovunque.
Così sei il mio mare e il mio celo, e pianta e terra ed
erba.
Sei anche un po’ me stessa, la mia parte migliore.
E dimentico di averti così tardi capita.
Però mi fa impazzire la mia incomprensione di quello
che è accaduto.
Mare, dammi la rassegnazione.
Se puoi, addolcisci il mio dolore.
Ma non parlarmi più d’eterno.
( Milvia Di Michele)
foto di Azione Creativa
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