Una
volta, Martin, mi nascosi. Una lunga storia :avevo meno di cinque anni .
Il casolare
(Me ne stavo rannicchiata in quell’angolo scuro della
cantina, nascosta tra un vecchio armadio e sacchi pieni di non so più che cosa.
Avevano smesso di cercarmi.
Le loro voci, prima affannate e lontane, adesso
diventavano chiare.
Riuscivo a comprendere le parole, ascoltare i sospiri.
Probabilmente si stava facendo buio e per questo
tornavano a casa, disperati e rassegnati, non immaginando quanto fossi vicina.
Non avevo più paura. Li sentivo non arrabbiati con me,
ma preoccupati per la mia sorte.
Però non mi decidevo ad uscire dal mio riparo,
diventato per me quasi una prigione.
Tutto per un gattino pieno di pulci!
Mio padre, qualche ora prima, dopo avermelo visto di
nuovo in braccio, aveva perso la pazienza e mi aveva lanciato il cappello.
-Massere!- era stata la sua minaccia, e non aveva
aggiunto altro.
-Stasera!- E questa parola mi era cresciuta dentro,
facendomi tremare.
Ero corsa da mia madre che stava sistemando le
fascine, attaccandomi alle sue gonne.
-Vattene, pi piacire! La legna te po’ pizzicà!-
Povera mamma! Se solo avesse immaginato il mio stato
d’animo!
Mi ero sentita persa. Corsi affannosamente verso la
cantina, scendendo precipitosamente i gradini che vi conducevano e scelsi
l’angolo più buio, quello che poteva nascondermi meglio e mettermi in salvo.
Rimasi lì a lungo, immobile, finché improvvisamente
ebbi la sensazione che il tempo si era fermato, che avevo varcato i confini
dello scorrere delle ore e dei fatti.
E finalmente non avevo più paura, non solo per le voci
che sentivo amiche, anche perché quel luogo e quel momento mi erano diventati
estranei.
Sentivo il cuore battere, i pensieri scorrere, ma
questi avvenimenti accadevano dentro il mio corpo: la realtà esterna era
sospesa, mi sentivo cosa viva in un mondo inesistente.
Ma forse ero assente anche a me stessa. I miei sensi
sembravano essersi allontanati, come appartenenti a qualcun altro.
Veramente presente era solo la mia mente.
Sarei potuta rimanere ferma all’infinito, lasciare il
mio corpo come una casa disabitata, partire per un lungo viaggio, senza
attraversare alcuna terra, o mare, o cielo.
Stavo imparando il gusto di camminarmi dentro, di
conoscermi oltre l’apparenza, di scoprire la mia anima.
Alcuni pensano che sia un percorso pericoloso, una
specie di malattia che può farci perdere. Però mi piaceva.
Altre immobilità amavo e amo ancora.
A volte rimango fissa, lasciandomi penetrare dal mio
ambiente. Di nuovo la natura diventa il mio sangue e la mia carne, il mio
respiro.
Sento gli alberi crescermi dentro. Mi trasformo in
vento e sole, terra scura, arata di fresco.
Il limite del mio corpo si sposta, scompare qualsiasi
separazione tra il mio dentro e il fuori.
E mi ritrovo a non essere né l’uno, né l’altro, pur
ben sapendo di esistere.
Riesco a perdermi anche in altri ambienti, posti dove,
immedesimarsi è proprio meno romantico, dove non c’è bellezza e non c’è
armonia. Nemmeno un po’ di pace.
Luoghi affollati di gente che grida, o magari ride,
che corre affannata o s’incanta a guardare.
Sempre, se voglio, il mondo può venirmi dentro, ed io
gli lascio il posto e vado via.
Deve esistere un luogo, una vita parallela che,
invisibile, pure ci circonda.
Un mondo senza confini, senza spazio, né tempo, che ci
comprende sempre, perché già ci contiene in ogni nostra possibilità di essere.
A volte, mi pare di sentirne la presenza …
-Fia mì! … Core mì! … duva stì?-( figlia mia, cuore
mio, dove sei?)
Il grido di mia madre bucò il mio silenzio.
Mi chiamò con tale forza da raggiungermi e obbligarmi
a uscire, quasi partorendomi di nuovo.
Balbettai – ecme!- ( eccomi)
Tremavo. Vennero a prendermi e finalmente mi portarono
via dal mio nascondiglio.
Avevo le gambe indolenzite e il viso tutto bagnato di
lacrime.
Quanto mi festeggiarono!
Mamma mi mise seduta sulle sue gambe, fece portare la
scatola di cartone, quella dove aveva riposto le poche cose d’oro che
possedeva, e cominciò a ornarmi con le sue catenine.
Le mie sorelle e i cugini mi stavano addosso,
incuriositi e un po’ gelosi di tanta immeritata attenzione.
Dietro di me, la presenza di mio padre, come sempre,
mi dava forza.
In cerchio, intorno, gli altri si erano raccolti in
più file.
Eravamo una famiglia numerosa, ventiquattro parenti
sotto lo stesso tetto: zii, nonni, cugini…
Erano stati tutti a cercarmi, avevano frugato con
lunghe canne fin dentro il fosso.
Che regalo prezioso avevo ricevuto!
Ancora oggi, dopo tanti anni, mi sorprendo a
desiderare fughe e ripari.
Tuttavia mi trattengono i legami, la necessità della
mia presenza.
Mi trattiene ancor più la mancanza di un urlo che non potrà
mai più raggiungermi, un grido che non potrà più cercarmi.
C’è un’altra voce ,ora ,che spesso mi vuole, mi
lusinga: è la mia.
L’antico bisogno di chiusura non si è mai placato.
Appena posso, mi rintano e salgo strette scale a
chiocciola impolverate, cunicoli lunghi e bui.
Fatico dentro labirinti familiari, dai percorsi
sconosciuti, cambio direzioni, deviazioni: è sempre una grande avventura.
Il mio corpo pare in perfetta tranquillità, mentre mi
rovisto dentro.
Più di una volta mi sono inventata una chiamata
inesistente per tornare alla luce, per riconquistarmi i sensi e aprirmi la
posta al reale.
Vale la pena sempre.
Ci sono affetti più forti di ogni paura, più caldi che
qualsiasi nascondiglio.
( da finestre aperte- mdm)
Cominciò? La mia alienazione ci fu sempre, ma variò
con il cambiare delle stagioni:
Io nacqui alienata, refrattaria a integrarmi
totalmente con il mondo reale.
Non sempre sono stata consapevole della mia diversità
(se diversità davvero è :che ne so io degli altri? In quale modo vivono e
sentono ?)
Non è facile definire la mia alienazione: è uno stato
d’animo, come lo è l’essere felici o malinconici, l’essere arrabbiati . Si può
dire: io sento questa emozione, ma si può
raccontarla?
Variò anche con il cambiare casa, per esempio quando
lasciai il vecchio casolare dove si viveva in tanti e che ora è solo un rudere:
ORIGINI
Quante volte, ho desiderato tornare!
E tutto era come un sogno.
Piccoli particolari nella nebbia:
il grembiulino che riempivo di fiori bianchi,
il pelo morbido del mio cane,
l’odore della stalla,
il grande caminetto acceso
e, intorno, cari volti
illuminati dalla fiamma.
Una grande famiglia
e ogni lavoro era come fosse festa.
Ma qui, sento solo il silenzio.
Questa vecchia casa è tutta screpolata,
sta ridiventando pietra e sabbia e terra.
E l’erba cresce tra le fessure
E sulle tegole del tetto.
Il mio pino però
è diventato ancora più grande,
ha steso intorno le sue lunghe braccia
e il suo buon profumo
mi porta un po’ della mia infanzia.
( origini-da quadri- mdm)
e andai ad
abitare in paese, in una vecchia casa con l’orto:
L'ORTO
Era un rettangolo stretto di terra, isolato da una fitta siepe che lo circondava su tre lati. In mezzo alla siepe si facevano posto un grande albero di alloro, uno più piccolo di melograno e un’altissima pianta di sambuco con i cui frutti, noi bambini, giocavamo sporcandoci sempre con nostra grande soddisfazione. Limitavano l’orto anche il nostro gallinaio, vicino al quale mio padre faceva la “ role” di piantine di pomodori e il muro della stalla dei nostri vicini, coperto, in parte, da folti rami di rosmarino.
Mi piaceva andarci. Osservavo crescere gli ortaggi: rettangoli di rape, finocchi, insalata riccia e a foglie larghe, carote.
Verso la fine dell’estate, la capanna ricopriva tutto l’orticello come una tettoia golosa e profumata: grappoli di uva nera e, più su, di colore bianco oro, si gonfiavano tra i pampini ancora verdi e lungo i pali di cemento attorno ai quali si attorcigliavano le viti.
C’era un angolo che però non amavo, anzi era la mia grande vergogna: vicino al gallinaio c’era una casetta di legno stretta e alta, coperta da una tendina ricavata da un sacco vecchio. Quello era il nostro bagno. Non avevamo altro.
A lavarci ci adattavamo in casa con bacinelle e brocche, ma per il resto era tutto lì. E i tempi erano già diversi.
Fu così che cominciai a fantasticare e abbellii con l’immaginazione quello che neanche il più bravo pittore avrebbe potuto rendere bello. Fantasticavo e immaginavo, infine ci credetti anch’io e dissi tutto alle mie amiche.
M’invidiarono. Ben presto quella casetta diventò per me motivo di vanto. Tutte avrebbero voluto poter raggiungere, attraverso quello strano e inadatto ingresso, il paese delle fate che invece era accessibile solo per me, perché io ne ero la proprietaria.
Raccontai di ampi prati verdi, dove l’erba era più morbida e alta che altrove, di amici che avevano il dono della magia e che, ogni giorno, m’invitavano alle loro feste e mi offrivano dolci squisiti mentre, intorno a noi, si diffondeva una dolce musica.
Per loro ero importante, mi ascoltavano sempre con grande interesse. Ero l’ospite più atteso e desiderato della terra.
Poi si faceva sera e si tornava a casa. Ognuno alla sua casa.
Ricordo l’amaro in bocca, mentre facevo finta che andasse tutto bene e il mio viso assumeva quella strana aria di sufficiente contentezza dipinta sul volto di quelli con cui la vita è un po’ più in debito.
Ma questo, allora, io non lo sapevo.
Pensavo che la nostra famiglia fosse povera per colpa nostra e, vergognandomene, cercavo di nascondere agli altri questo gran peso.
Comunque, per qualche tempo, riuscii a convincermi che non mi mancava niente, che addirittura ero più fortunata di altri.
Andò avanti così per un po’, ma non poteva durare per sempre.
Facevo sempre più fatica a inventare le incredibili
avventure che volevo accadessero dentro quella strana tenda di tela di sacco.
Le mie amiche iniziarono a dubitare e, pian piano, persero interesse ad
ascoltare le mie storie.
D’altra parte anch’io ero un po’ stanca e un po’ pentita.
Finì tutto lentamente, quasi in modo naturale.
Mi rimase però una specie d’insegnamento, una linea di comportamento da seguire. Da allora imparai, ogni volta che qualcosa mi rendeva triste, a fare finta di niente. Annullavo l’accaduto. Se non mi riusciva, mi spostavo altrove con un grande volo di fantasia.
Creavo sogni anche di giorno ed erano uno più bello dell’altro.
La notte, però, prendevano vita indipendentemente da me e sapevano di realtà più che la realtà vera: c’erano fantasmi e mostri che mi tormentavano, rancori ed odi e, sempre presente, l’immagine della morte con la sua falce d’argento in mano.
Furono anni pieni di sofferenze.
Intanto gli altri tracciavano le linee della loro vita, e mi parevano tutte dritte, tutte in salita.
Quante curve, la mia! Mi si aggrovigliava addosso perché non riuscivo a tornare dentro di me. La fuga dalla vita reale non era più un gioco, era una specie di malattia che in parte ho vinto, ma che ha, a volte, dei ritorni.
Perchè questo mio racconto?
Vedi, i bambini hanno una grossa magia e per non soffrire sanno andare dove il dolore ha fine.
Non fuggono la realtà, la vincono inventandosi mondi fantastici.
Anche i grandi, a volte, sanno farlo.
Ascolta ora un mio sogno. Non uno di quei deliri notturni che spesso mi piace raccontare: una goccia di futuro.
Ascolta: immagina l’anno 9999 (la data la puoi anche cambiare.)
La terra sarà certamente diversa. Strane città per il gusto di oggi, strano modo di vestire.
Forse strani uccelli solcheranno un cielo più ricco di colori. Pianta nuove e nuovi fiori.
Non ci saranno più alcune specie di animali, altri saranno più grandi, altri ancora di dimensioni minori.
Ci saremo sicuramente ancora noi: più sereni, più belli meno stanchi.
Avremo meno malattie, parleremo più dolcemente.
Ci sarà per ognuno la sua occasione ed il suo tempo.
Ci aspetteremo a vicenda.
Andremo ogni giorno a parlare con i nostri morti. Poi saluteremo i nuovi nati.
E, non sapendo ancora cosa siano la vita e la morte, faremo di noi grandi cerchi per parlare e cercare di capire.
Saremo tutti piccoli Dei mortali perché ognuno avrà recuperato se stesso.
Sarà l’anno 9999
( la data la puoi anche cambiare)
D’altra parte anch’io ero un po’ stanca e un po’ pentita.
Finì tutto lentamente, quasi in modo naturale.
Mi rimase però una specie d’insegnamento, una linea di comportamento da seguire. Da allora imparai, ogni volta che qualcosa mi rendeva triste, a fare finta di niente. Annullavo l’accaduto. Se non mi riusciva, mi spostavo altrove con un grande volo di fantasia.
Creavo sogni anche di giorno ed erano uno più bello dell’altro.
La notte, però, prendevano vita indipendentemente da me e sapevano di realtà più che la realtà vera: c’erano fantasmi e mostri che mi tormentavano, rancori ed odi e, sempre presente, l’immagine della morte con la sua falce d’argento in mano.
Furono anni pieni di sofferenze.
Intanto gli altri tracciavano le linee della loro vita, e mi parevano tutte dritte, tutte in salita.
Quante curve, la mia! Mi si aggrovigliava addosso perché non riuscivo a tornare dentro di me. La fuga dalla vita reale non era più un gioco, era una specie di malattia che in parte ho vinto, ma che ha, a volte, dei ritorni.
Perchè questo mio racconto?
Vedi, i bambini hanno una grossa magia e per non soffrire sanno andare dove il dolore ha fine.
Non fuggono la realtà, la vincono inventandosi mondi fantastici.
Anche i grandi, a volte, sanno farlo.
Ascolta ora un mio sogno. Non uno di quei deliri notturni che spesso mi piace raccontare: una goccia di futuro.
Ascolta: immagina l’anno 9999 (la data la puoi anche cambiare.)
La terra sarà certamente diversa. Strane città per il gusto di oggi, strano modo di vestire.
Forse strani uccelli solcheranno un cielo più ricco di colori. Pianta nuove e nuovi fiori.
Non ci saranno più alcune specie di animali, altri saranno più grandi, altri ancora di dimensioni minori.
Ci saremo sicuramente ancora noi: più sereni, più belli meno stanchi.
Avremo meno malattie, parleremo più dolcemente.
Ci sarà per ognuno la sua occasione ed il suo tempo.
Ci aspetteremo a vicenda.
Andremo ogni giorno a parlare con i nostri morti. Poi saluteremo i nuovi nati.
E, non sapendo ancora cosa siano la vita e la morte, faremo di noi grandi cerchi per parlare e cercare di capire.
Saremo tutti piccoli Dei mortali perché ognuno avrà recuperato se stesso.
Sarà l’anno 9999
( la data la puoi anche cambiare)
( l’orto –da- finestre aperte-mdm)
Martin caro, ti sei accorto che sto pescando dai miei scritti? Se ne stanno lì da trent’anni dentro un tiretto, anche dentro il PC, quasi mai visti. Li tenevo come cose care, a volte mi son chiesta: che senso ha? Ma il senso di tutto c’è sempre, bisogna saper aspettare. Ora che sto cercando tra le mie righe, cercando i segnali della mia alienazione: sai cosa c’è di bello? Più ,m’ inoltro e più il panorama mi piace. Forse davvero la mia è una felice alienazione!
Guarda: lassù, sulla collina, il mio angelo sorride.
Sparirà insieme alla mia paura.
LA PAURA
averla tutta nelle mie mani
e incollarla, a forza, sulla tela:
prima la bocca enorme e nera,
come una terribile voragine,
poi gli occhi, gelidi occhi grigi
che mi fissano, che vogliono bloccarmi.
Grandi squarci di colore sulla pelle,
rughe profonde e scure,
rossi capelli incolti.
Ma la paura non è
una maschera di Carnevale!
Forse è fatta più di vuoti e mancanze,
è camminare su un filo sottile,
diventare lentamente trasparenti.
Paura è guardarsi giovani allo specchio
E vedersi riflessi già vecchi
E, pensando alla morte, scoprire
Che ancora non si è nati del tutto.
Paura è non ritrovarsi.
Negarsi.
( la paura-da quadri-mdm)
Oggi il mio angelo ha il sorriso di mia
madre:
MIA MADRE
Oggi voglio dipingere te, madre.
Ora che sono madre anch’io
e, forse, ho finalmente capito.
Il cordone non sanguina più:
sono io, adesso, a partorirti.
Sulla tela l’ovale del tuo volto.
Le tue rughe, il tuo sguardo,
i tuoi capelli grigi,
sono la tua storia,
ed io già la conosco
e mi pare di scriverla ogni giorno.
Come mi somigli madre!
Nel tuo viso, i miei lineamenti:
come sarò, o sono già stata.
Il corso del tempo si confonde
e sei insieme, la mia creatura
e la mia origine.
Per rappresentarti lascio da parte i colori:
solo segni, quasi per leggerti
come leggono le zingare la mano.
E, nel disegnarti, il carboncino si trasforma,
diventa dolce, non calca,
ma sfuma e vela,
e diventa una lunga carezza
che, finalmente, riesco a farti.
( mia madre - da quadri-mdm)
Mia madre, Il mio mare
…la mia prima casa
IL QUADRO
Quel quadro!
L’acqua del mare riempiva quasi due terzi della grande tela rettangolare
usata perpendicolarmente. Trasparenze verdastre ne lasciavano intuire la
profondità.
Pareva di sentirne la frescura. La sua immagine mi entrava, attraverso
lo sguardo, fin dentro l’anima.
In alto, dello stesso colore, ma più leggero e luminoso, si apriva il
cielo.
Mi godevo ogni pennellata dell’artista, scrutavo ogni sfumatura.
Lo avrei rubato. E non solo per la sua bellezza.
Sentiva che mi aderiva, che appagava i miei bisogni più veri.
Mi placava guardarlo, come un tempo mi placavano antiche ninna-nanne.
Era un abbraccio materno, protettivo, che tuttavia non mi teneva a
forza.
Bastava spostare la direzione dei miei occhi dall’acqua all’aria, per
assaporare una grande sensazione di libertà.
Sarà che sono innamorata del mare.
Pare aspettarmi quando gli vado incontro. Sempre.
Quel quadro!
Mi viene in mente inatteso, a un anno di distanza dall’averlo visto.
E scopro intatta la gioia allora provata.
Probabilmente dell’inizio del novecento, dipinto bene, con
professionalità.
I suoi colori mi facevano pensare all’infanzia.
Non strettamente alla mia, non poteva perché l’ho vissuta tra valli e
colline, lontane purtroppo dal mare.
Pure, il verde del grano a primavera, quando ancora il sole non
l’ingiallisce e il vento ne muove gli steli, mi pare somigli un poco al suo
colore.
Mi ricordava l’infanzia perché sapeva di buono, di desiderati ritorni,
di fermata.
Benchè le onde fossero larghe e in movimento, mi raggiungeva una pace
che andava oltre il tempo scandito, oltre le cose.
-Eccomi mare, abbracciami ancora. Sono tornata. E dolce è la tua carezza
che mi bagna-
C’è da imparare dal mare!
Ma più che il desiderio di sapere, mi ha portata la necessità di
riconquistarmi, di ritrovare affetti ed emozioni creduti dimenticati.
Ieri hai abbracciato quell’uomo. E’ rientrato in te, rifiutando la sua
esistenza. E tu gli hai aperto le misteriose porte dell’inizio e della fine.
Mi trovo disorientata, non riesco ad associarti sensazioni di paura e di
morte.
Ma c’è chi viene da un altro viaggio, un lungo viaggio dentro la
sofferenza.
E la tua acqua, per loro si fa nera.
Perché non sono solo il sole e il cielo a darle colore. Anche i nostri
sentimenti.
Comincia la bella stagione.
Incontro qualcuno che, raccolto, lo sguardo su di te, cammina
lentamente.
E i passi hanno un senso e vanno lontano.
Mi scuote la gioia di un bimbo che gioca con il suo cane.
Rido dentro con lui.
Ecco, mi riconosco.
In questa solitudine, ogni volta mi ritrovo.
Per poi perdermi di nuovo nell’altra grande solitudine della vita che
corre e calpesta.
Né si può evitare di essere travolti.
Il mare …
Ma so di parlare di te.
E’ presto per riuscire a farlo apertamente, spudoratamente.
Posso solo dire di alcune cose che ti somigliano, come nei sogni, quando
la realtà assume volti diversi e veste, nascondendoli, i nostri segreti.
Per renderne accessibile l’espressione.
Mi sei mancata da pochi mesi, ma per me sei più viva di prima.
La tua presenza si è come dilatata, mi accompagna ovunque.
Così sei il mio mare e il mio celo, e pianta e terra ed erba.
Sei anche un po’ me stessa, la mia parte migliore.
E dimentico di averti così tardi capita.
Però mi fa impazzire la mia incomprensione di quello che è accaduto.
Mare, dammi la rassegnazione.
Se puoi, addolcisci il mio dolore.
Ma non parlarmi più d’eterno.
( il quadro-da finestre
aperte-mdm)
E la mia fuga si veste sempre di sogno:
SOGNO DI UNA FUGA
Non ho fame.
Anzi, il digiuno mi dà una sensazione di leggerezza che mi piace.
Mi sento quasi fatta d’aria. Sto bene, anche se ho un po’ paura.
La strada è piena di gente: persone che conosco bene.
Fino a ieri facevo parte della loro vita. Ora mi negano lo sguardo:
andandomene, mi hanno rifiutata. Prima ancora che io li lasci, è già come non
ci fossi. Pure cammino tra loro.
Di tanto in tanto qualcuno pare accorgersi di me, ma nessuno mi sorride.
Pensano. Osa andarsene, sta allontana dosi.
Sto bene, anche se ho un po’ paura.
So che ci saranno giorni difficili : non avrò da mangiare.
C’è il dottore che mi aspetta nella sua casa, è obbligatorio passare da
lui prima di andarsene. Pare che ognuno debba farlo, anche se non conosco
qualcuno che sia andato via, che possa spiegarmi come si parte.
Ecco, mi fa entrare. C’è un grande tavolo attorno al quale sedere.
Mi si mette vicino, ha uno sguardo dolce. Gli altri due non li conosco,
saranno suoi assistenti. Non mi piacciono, sono freddi, non si interessano alla
mie parole.
-Dottore, vale la pena?-Gli chiedo.-Certo, sei coraggiosa-
So che vorrebbe proteggermi, però io devo andare e lo sappiamo entrambi.
-Ascolta - mi dice- potrai venire quando vorrai, troverai sempre
qualcosa da mangiare-
Strani messaggi i suo e, senza accorgermene, anch’io glieli rendo.
Mi guarda con tenerezza, come fosse innamorato:- verrai?-
( da -finestre aperte -"Sogno di una fuga"-mdm)
Un cammino sempre con la mia dolce
amica Solitudine:
I SAPORI DELLA SOLITUDINE
Domenica. E finalmente sono sola in casa.
Neanche mangerò, per non sporcare nemmeno un piatto.
Berrò, forse, solo un po’ di latte.
Che bella sensazione di pace!
Che sollievo questo silenzio che si dilata di stanza in stanza: silenzio
consolatorio.
I miei pensieri sono liberi di costruirsi, intrecciarsi, portarmi da un
luogo a un altro, da un tempo adun altro.
Che mi manca?
In tanti hanno paura della solitudine, io no, sono altre le solitudini che temo.
Mi capita di sentirle nel cuore e nell’anima, scoppiarmi dentro
disorientandomi e facendomi sembrare la realtà un sogno.
Mi accade quando scopro che le persone con cui vivo non mi raggiungono,
nèio comunico con loro.
Confusioni di egoismi e invadenze mi circondano, mi frantumano senza
pietà. Ognuno vede solo se stesso e la sua affermazione e ci si calpesta l’un
l’altro, ma senza cattiveria.
La disperazione è altra cosa.
Per questo amo il silenzio e sto bene da sola.
Ho imparato da tempo il suo sapore.
Era un’altra epoca, un altro ambiente.
Avevo attorno colline e non mura, alberi e ruscelli al posto dei
balconi.
E poi acqua ed erba … erba … erba.
C’era una grande intesa tra me e la natura.
Mi pareva di essere un po’ terra e un po’ cielo, un po’ foglia tremante,
o tronco ruvido di quercia.
Nostalgia.
Voglia di tornare in luoghi persi, persa, ormai, definitivamente,
anch’io.
Pure, quello è ancora il mio vero territorio, il mio humus.
Lì affondo ancora le mie radici per crescere.
Terreno fertile, annaffiato non d’acqua piovana, ma da lacrime pudiche
mai versate,
scaldato non dal sole, ma da affetti certi e dolci ricordi.
Solitudine piena.
Certo, questa di oggi è altro.
E’ assenza di dolore, è pace. Somiglia a casolari abbandonati, a templi
corrosi dai secoli, pure ancora viventi e testimoni di una storia mai del tutto
superata.
L’altra era acqua di cascata, frescura d’ alberi, incanto.
Era attesa di grandi eventi, vitalità a stento repressa e trattenuta,
come corsa frenata di focosi cavalli.
Ma le epoche della nostra vita hanno stagioni diverse e non c’è speranza
di ritorno.
Odio questo accontentarmi, questo accettare rassegnato.
Uscirò. Saluterò la gente per strada, anche quella che non conosco.
Poi arriverò al mio mare.
Ricorderò cosa cerco e mi manca.
E, di nuovo, non saprò dirlo ad alcuno.
Sola, come sempre, ma colmi i miei occhi d’azzurro e di luce.
(da- finestre aperte-i sapori della solitudine-mdm)
Però la solitudine cos’è? Se...
Ci tiene insieme la stessa catena
Ci tiene insieme una stessa catena
e camminiamo la stessa strada:
Dio prigioniero o inconsapevole schiavo,
felice eroe o disperato assassino,
per poco o per molto, ( per un soffio di vento)
dentro sogni di vita e sempre cercando.
Noi dipingiamo gli anelli di oro,
li coloriamo di cielo e di prato,
a volte anche di notte nera
dove non palpita né stella o luna,
ma dentro cerchi e robusti confini,
ci tiene insieme la stessa catena.
( da "Quadri")
( da "Quadri")
Martin, Ieri sono andata ad un
funerale, una donna della mia età, una ex compagna di scuola.
Oggi mi son tornati gli attacchi di
panico. E non è paura di morire :è l’incomprensione, l’esclusione dai
meccanismi che ci determinano. Come sempre è la paura di impazzire.
L’alienazione è pazzia?
E’ pazzia questa voglia di andare altrove?
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