Avevano smesso di
cercarmi.
Le loro voci, prima
affannate e lontane, adesso diventavano chiare.
Riuscivo a
comprendere le parole, ascoltare i sospiri.
Probabilmente si
stava facendo buio e per questo tornavano a casa, disperati e rassegnati, non
immaginando quanto fossi vicina.
Non avevo più paura.
Li sentivo non arrabbiati con me, ma preoccupati per la mia sorte.
Però non mi decidevo
ad uscire dal mio riparo, diventato per me quasi una prigione.
Tutto per un gattino
pieno di pulci!
Mio padre, qualche
ora prima, dopo avermelo visto di nuovo in braccio, aveva perso la pazienza e mi
aveva lanciato il cappello.
-Massere!- era stata
la sua minaccia, e non aveva aggiunto altro.
-Stasera!- E questa
parola mi era cresciuta dentro, facendomi tremare.
Ero corsa da mia
madre che stava sistemando le fascine, attaccandomi alle sue gonne.
-Vattene, pi piacire!
La legna te po’ pizzicà!-
Povera mamma! Se solo
avesse immaginato il mio stato d’animo!
Mi ero sentita persa.
Corsi affannosamente verso la cantina, scendendo precipitosamente i gradini che
vi conducevano e scelsi l’angolo più buio, quello che poteva nascondermi meglio
e mettermi in salvo.
Rimasi lì a lungo,
immobile, finché improvvisamente ebbi la sensazione che il tempo si era fermato,
che avevo varcato i confini dello scorrere delle ore e dei fatti.
E finalmente non
avevo più paura, non solo per le voci che sentivo amiche, anche perché quel
luogo e quel momento mi erano diventati estranei.
Sentivo il cuore
battere, i pensieri scorrere, ma questi avvenimenti accadevano dentro il mio
corpo: la realtà esterna era sospesa, mi sentivo cosa viva in un mondo
inesistente.
Ma forse ero assente
anche a me stessa. I miei sensi sembravano essersi allontanati, come
appartenenti a qualcun altro.
Veramente presente
era solo la mia mente.
Sarei potuta rimanere
ferma all’infinito, lasciare il mio corpo come una casa disabitata, partire per
un lungo viaggio, senza attraversare alcuna terra, o mare, o cielo.
Stavo imparando il
gusto di camminarmi dentro, di conoscermi oltre l’apparenza, di scoprire la mia
anima.
Alcuni pensano che
sia un percorso pericoloso, una specie di malattia che può farci perdere. Però
mi piaceva.
Altre immobilità
amavo e amo ancora.
A volte rimango
fissa, lasciandomi penetrare dal mio ambiente. Di nuovo la natura diventa il mio
sangue e la mia carne, il mio respiro.
Sento gli alberi
crescermi dentro. Mi trasformo in vento e sole, terra scura, arata di
fresco.
Il limite del mio
corpo si sposta, scompare qualsiasi separazione tra il mio dentro e il
fuori.
E mi ritrovo a non
essere né l’uno, né l’altro, pur ben sapendo di esistere.
Riesco a perdermi
anche in altri ambienti, posti dove, immedesimarsi è proprio meno romantico,
dove non c’è bellezza e non c’è armonia. Nemmeno un po’ di pace.
Luoghi affollati di
gente che grida, o magari ride, che corre affannata o s’incanta a
guardare.
Sempre, se voglio, il
mondo può venirmi dentro, ed io gli lascio il posto e vado via.
Deve esistere un
luogo, una vita parallela che, invisibile, pure ci circonda.
Un mondo senza
confini, senza spazio, né tempo, che ci comprende sempre, perché già ci contiene
in ogni nostra possibilità di essere.
A volte, mi pare di
sentirne la presenza …
-Fia mì! … Core mì! …
duva stì!!!!-( figlia mia, cuore mio, dove sei?)
Il grido di mia madre
bucò il mio silenzio.
Mi chiamò con tale
forza da raggiungermi e obbligarmi a uscire, quasi partorendomi di
nuovo.
Balbettai – ecme!- (
eccomi)
Tremavo. Vennero a
prendermi e finalmente mi portarono via dal mio nascondiglio.
Avevo le gambe
indolenzite e il viso tutto bagnato di lacrime.
Quanto mi
festeggiarono!
Mamma mi mise seduta
sulle sue gambe, fece portare la scatola di cartone, quella dove aveva riposto
le poche cose d’oro che possedeva, e cominciò a ornarmi con le sue
catenine.
Le mie sorelle e i
cugini mi stavano addosso, incuriositi e un po’ gelosi di tanta immeritata
attenzione.
Dietro di me, la
presenza di mio padre, come sempre, mi dava forza.
In cerchio, intorno,
gli altri si erano raccolti in più file.
Eravamo una famiglia
numerosa, ventiquattro parenti sotto lo stesso tetto: zii, nonni,
cugini…
Erano stati tutti a
cercarmi, avevano frugato con lunghe canne fin dentro il fosso.
Che regalo prezioso
avevo ricevuto!
……………
Ancora oggi, dopo
tanti anni, mi sorprendo a desiderare fughe e ripari.
Tuttavia mi
trattengono i legami, la necessità della mia presenza.
Mi trattiene ancor
più la mancanza di un urlo che non potrà mai più raggiungermi, un grido che non
potrà più cercarmi.
C’è un’altra voce
,ora ,che spesso mi vuole, mi lusinga: è la mia.
L’antico bisogno di
chiusura non si è mai placato.
Appena posso, mi
rintano e salgo strette scale a chiocciola impolverate, cunicoli lunghi e
bui.
Fatico dentro
labirinti familiari, dai percorsi sconosciuti, cambio direzioni, deviazioni: è
sempre una grande avventura.
Il mio corpo pare in
perfetta tranquillità, mentre mi rovisto dentro.
Più di una volta mi
sono inventata una chiamata inesistente per tornare alla luce, per
riconquistarmi i sensi e aprirmi la posta al reale.
Vale la pena
sempre.
Ci sono affetti più
forti di ogni paura, più caldi che qualsiasi nascondiglio.
......................
L’Orto
C’era un orto dietro
la vecchia casa.
Era un rettangolo stretto di terra, isolato da una fitta
siepe che lo circondava su tre lati. In mezzo alla siepe si facevano posto un
grande albero di alloro, uno più piccolo di melograno e un’altissima pianta di
sambuco con i cui frutti, noi bambini, giocavamo sporcandoci sempre con nostra
grande soddisfazione. Limitavano l’orto anche il nostro gallinaio, vicino al
quale mio padre faceva la “ role” di piantine di pomodori e il muro della stalla
dei nostri vicini, coperto, in parte, da folti rami di rosmarino.
Mi piaceva
andarci. Osservavo crescere gli ortaggi: rettangoli di rape, finocchi, insalata
riccia e a foglie larghe, carote.
Verso la fine dell’estate, la capanna
ricopriva tutto l’orticello come una tettoia golosa e profumata: grappoli di uva
nera e, più su, di colore bianco oro, si gonfiavano tra i pampini ancora verdi e
lungo i pali di cemento attorno ai quali si attorcigliavano le viti.
C’era un
angolo che però non amavo, anzi era la mia grande vergogna: vicino al gallinaio
c’era una casetta di legno stretta e alta, coperta da una tendina ricavata da un
sacco vecchio. Quello era il nostro bagno. Non avevamo altro.
A lavarci ci
adattavamo in casa con bacinelle e brocche, ma per il resto era tutto lì.Ed i
tempi erano già diversi.
Fu così che cominciai a fantasticare e abbellii con
l’immaginazione quello che neanche il più bravo pittore avrebbe potuto rendere
bello. Fantasticavo e immaginavo, infine ci credetti anch’io e dissi tutto alle
mie amiche.
Mi invidiarono. Ben presto quella casetta diventò per me motivo
di vanto. Tutte avrebbero voluto poter raggiungere, attraverso quello strano e
inadatto ingresso, il paese delle fate che invece era accessibile solo per me,
perché io ne ero la proprietaria.
Raccontai di ampi prati verdi dove l’erba
era più morbida e alta che altrove, di amici che avevano il dono della magia e
che, ogni giorno, mi invitavano alle loro feste e mi offrivano dolci squisiti
mentre, intorno a noi, si diffondeva una dolce musica.
Per loro ero
importante, mi ascoltavano sempre con grande interesse. Ero l’ospite più atteso
e desiderato della terra.
Poi si faceva sera e si tornava a casa. Ognuno
alla sua casa.
Ricordo l’amaro in bocca, mentre facevo finta che andasse
tutto bene e il mio viso assumeva quella strana aria di sufficiente contentezza
dipinta sul volto di quelli con cui la vita è un po’ più in debito.
Ma
questo, allora, io non lo sapevo.
Pensavo che la nostra famiglia fosse povera
per colpa nostra e, vergognandomene, cercavo di nascondere agli altri questo
gran peso.
Comunque, per qualche tempo, riuscii a convincermi che non mi
mancava niente, che addirittura ero più fortunata di altri.
Andò avanti così
per un po’, ma non poteva durare per sempre.
Facevo sempre più fatica ad
inventare le incredibili avventure che volevo accadessero dentro quella strana
tenda di tela di sacco. Le mie amiche iniziarono a dubitare e, pian piano,
persero interesse ad ascoltare le mie storie.
D’altra parte anch’io ero un
po’ stanca e un po’ pentita.
Finì tutto lentamente, quasi in modo
naturale.
Mi rimase però una specie di insegnamento, una linea di
comportamento da seguire. Da allora imparai, ogni volta che qualcosa mi rendeva
triste, a fare finta di niente. Annullavo l’accaduto. Se non mi riusciva mi
spostavo altrove con un grande volo di fantasia.
Creavo sogni anche di giorno
ed erano uno più bello dell’altro.
La notte, però, prendevano vita
indipendentemente da me e sapevano di realtà più che la realtà vera: c’erano
fantasmi e mostri che mi tormentavano, rancori ed odi e, sempre presente,
l’immagine della morte con la sua falce d’argento in mano.
Furono anni pieni
di sofferenze.
Intanto gli altri tracciavano le linee della loro vita, e mi
parevano tutte dritte, tutte in salita.
Quante curve, la mia! Mi si
aggrovigliava addosso perché non riuscivo a tornare dentro di me. La fuga dalla
vita reale non era più un gioco, era una specie di malattia che in parte ho
vinto, ma che ha, a volte, dei ritorni.
Perchè questo mio racconto?
Vedi ,
i bambini hanno una grossa magia e per non soffrire sanno andare dove il dolore
ha fine.
Non fuggono la realtà, la vincono inventandosi mondi
fantastici.
Anche i grandi, a volte, sanno farlo.
Ascolta ora un mio
sogno. Non uno di quei deliri notturni che spesso mi piace raccontare: una
goccia di futuro.
Ascolta: immagina l’anno 9999 ( la data la puoi anche
cambiare)
La terra sarà certamente diversa. Strane città per il gusto di
oggi, strano modo di vestire.
Forse strani uccelli solcheranno un cielo più
ricco di colori. Pianta nuove e nuovi fiori.
Non ci saranno più alcune specie
di animali, altri saranno più grandi, altri ancora di dimensioni minori.
Ci
saremo sicuramente ancora noi:più sereni, più belli meno stanchi.
Avremo meno
malattie, parleremo più dolcemente.
Ci sarà per ognuno la sua occasione ed il
suo tempo.
Ci aspetteremo a vicenda.
Andremo ogni giorno a parlare con i
nostri morti. Poi saluteremo i nuovi nati.
E, non sapendo ancora cosa siano
la vita e la morte, faremo di noi grandi cerchi per parlare e cercare di
capire.
Saremo tutti piccoli Dei mortali perché ognuno avrà recuperato se
stesso.
Sarà l’anno 9999
( la data la puoi anche cambiare)
....................
I sapori della
solitudine
Domenica.
E finalmente sono sola in casa.Neanche
mangerò, per non sporcare nemmeno un piatto.Berrò,
forse, solo un po’ di latte.
Che
bella sensazione di pace!
Che
sollievo questo silenzio che si dilata di stanza in stanza: silenzio
consolatorio.
I
miei pensieri sono liberi di costruirsi, intrecciarsi, portarmi da un luogo ad
un altro, da un tempo ad un altro.
Che
mi manca?
In
tanti hanno paura della solitudine, io no, non di questa. Sono altre le solitudini che
temo.
Mi
capita di sentirle nel cuore e nell’anima, scoppiarmi dentro disorientandomi e
facendomi sembrare la realtà un sogno.
Mi
accade quando scopro che le persone con cui vivo non mi raggiungono, e non
comunico con loro.
Confusioni
di egoismi e invadenze mi circondano, mi frantumano senza pietà.
Ognuno vede
solo se stesso e la sua affermazione e ci si calpesta l’un l’altro, ma senza
cattiveria.La
disperazione è altra cosa.
Per
questo amo il silenzio e sto bene da sola.
Ho
imparato da tempo il suo sapore.
Era
un’altra epoca, un altro ambiente.
Avevo
attorno colline e non mura, alberi e ruscelli al posto dei balconi.
E
poi acqua ed erba … erba … erba.
C’era
una grande intesa tra me e la natura.
Mi
pareva di essere un po’ terra e un po’ cielo, un po’ foglia tremante, o tronco
ruvido di quercia.
Nostalgia.
Voglia
di tornare in luoghi persi, persa, ormai, definitivamente, anch’io.
Pure,
quello è ancora il mio vero territorio, il mio humus.Lì
affondo ancora le mie radici per crescere.
Terreno
fertile, annaffiato non d’acqua piovana, ma da lacrime pudiche mai
versate,
scaldato
non dal sole, ma da affetti certi e dolci ricordi.
Solitudine
piena.
Certo,
questa di oggi è altro.
E’
assenza di dolore, è pace. Somiglia a casolari abbandonati, a templi corrosi dai
secoli, pure ancora viventi e testimoni di una storia mai del tutto
superata.
L’altra
era acqua di cascata, frescura d’ alberi, incanto.Era
attesa di grandi eventi, vitalità a stento repressa e trattenuta, come corsa
frenata di focosi cavalli.
Ma
le epoche della nostra vita hanno stagioni diverse e non c’è speranza di
ritorno.
Odio
questo accontentarmi, questo accettare rassegnato.
Uscirò.
Saluterò la gente per strada, anche quella che non conosco.
Poi
arriverò al mio mare.
Ricorderò
cosa cerco e mi manca.
E,
di nuovo, non saprò dirlo ad alcuno.
Sola,
come sempre, ma colmi i miei occhi d’azzurro e di luce.
..........................
Il patto
Quando
venni ad abitare nella casa dei miei suoceri, ho rispettato un
patto.
Avevamo
deciso, mio marito ed io, che dopo aver vissuto due anni da soli, saremmo
tornati ad abitare nel nostro paese, alla loro casa.
Non
necessario raccontare i motivi che mi portarono a mantenere la mia promessa,
anche perchè non li ho capiti mai tutti.
Io
dovevo rispettare un patto e così feci.
Piansi
un po’ prima di abituarmi, poi pian piano mi rassegnai, infine mi sono
affezionata a questa casa che, dopo tanti anni, sento anche mia. A questa gente
che va e viene.
Qui
vivevano i nonni di mio marito e qui tornano tutti i suoi parenti, quasi alla
ricerca delle proprie origini.
Noi
andiamo poco a trovarli, vengono loro, spesso.
E’
brava gente. Conosco a memoria le loro storie passate e presenti, storie che
girano, immancabilmente, intorno a quella di mio marito, da tutti ritenuta molto
importante.
-Mamma,
oggi sono venuta da te, perché finalmente voglio ascoltare la mia
storia.
Com’ero
quando sono nata? Bella? Quali sono state le mie prime parole? Ero allegra? Mi
volevate bene? Mi volevi bene tu?
Mi
guardi incredula. Ti meraviglio sempre un po’, io.
Ricordi
quando,sapendo di essere incinta, mi carezzavo la pancia e parlavo con la mia
creatura, viziandola già, perché,per me era la più bella del mondo?
Tu
non volevi, mi dicevi che avrei dovuto vergognarmi.
Non
sono bellissime le mie due figlie? Dunque?
Sorridi,
non mi comprendi, ma mi accetti.
Mamma
… perché è più importante l’infanzia di mio marito della mia?
Perché
intorno a lui fanno cerchio i suoi cari, mentre io mi sento sola?
Ci
sono delle volte che so di aver ragione, mille volte ragione.
Ma
mi chiedono tutti di capirlo.
Io
non voglio più capire, ho rinunciato pure ad essere capita.
Già,
anche per te è così.
Una
buona moglie fa questo: rende felice il proprio marito e mantiene unita la
famiglia.
Anche
tu hai fatto così, sempre.
Da
quanti anni? Più di cinquanta, ormai.
Non
ti pesano … questi anni?
Ci
guardiamo. Per non dirci bugie, restiamo in silenxzio.
E’
bella mia madre, anche ora che è vecchia.
Mi
sono sbagliata, credo proprio che mi capisca, forse ci siamo sempre
capite.
Torno
a casa.
Mia
suocera sta sbucciando piselli, insieme ad una zia.
Tutta
infervorata sta dicendo: mio figlio, quando era piccolo … che carnagione
fine!-
.....................
Sogno di una partenza
Non
ho fame.
Anzi,
il digiuno mi dà una sensazione di leggerezza che mi piace.
Mi
sento quasi fatta d’aria.
Sto
bene, anche se ho un po’ paura.
La
strada è piena di gente: persone che conosco bene.
Fino
a ieri facevo parte della loro vita. Ora mi negano lo sguardo: andandomene, mi
hanno rifiutata.
Prima
ancora che io li lasci, è già come non ci fossi. Pure cammino tra
loro.
Di
tanto in tanto qualcuno pare accorgersi di me, ma nessuno mi sorride. Pensano.
Osa andarsene, sta allontana dosi.
Sto
bene, anche se ho un po’ paura.
So
che ci saranno giorni difficili : non avrò da mangiare.
C’è
il dottore che mi aspetta nella sua casa, è obbligatorio passare da lui prima di
andarsene. Pare che ognuno debba farlo, anche se non conosco qualcuno che sia
andato via, che possa spiegarmi come si parte.
Ecco,
mi fa entrare. C’è un grande tavolo attorno al quale sedere.
Mi
si mette vicino, ha uno sguardo dolce. Gli altri due non li conosco, saranno
suoi assistenti. Non mi piacciono, sono freddi, non si interessano alla mie
parole.
-Dottore,
vale la pena?-Gli chiedo.
-Certo,
sei coraggiosa-
So
che vorrebbe proteggermi, però io devo andare e lo sappiamo
entrambi.
-Ascolta
- mi dice- potrai venire quando vorrai, troverai sempre qualcosa da
mangiare-
Strani
messaggi i suo e, senza accorgermene, anch’io glieli rendo.
Mi
guarda con tenerezza, come fosse innamorato:- verrai?-
Vado
via. Continua la mia sensazione di preoccupata felicità.
Devo
passare da mio marito, ce ne andremo insieme.
Non
mi meraviglio dell’assenza delle mie figlie, né di quella dei miei genitori e
dei miei parenti: loro non sono in questa dimensione, sono rimaste con me
nell’altra.
Ecco,
davanti a questa porta avrei dovuto trovarlo.
Non
c’è. Lo intravedo dentro la stanza. E’ carino con la sua camicia bianca e le
maniche piegate su, come chi è accaldato da troppo lavoro.
Mi
ha visto- non vieni?- gli chiedo.
-Non
posso- risponde, e il suo sguardo è severo.
Arretro
sorpresa. Riprendo fiato: l’avrei voluto con me.
E
mi accorgo di essere stata sempre sola, da quando il mio viaggio è
cominciato.
Ci
saranno giorni peggiori: non avrò da mangiare.
Intanto
sto bene così, anche se ho un po’ paura.
Sto
uscendo dal mio sogno, la luce del giorno mi va aprendo gli occhi.
Mio
marito,accanto a me, dorme ancora.
Lo
guardo e avrei voglia di chiedergli:
-perché
non sei venuto con me?-
.......................
Il
quadro
Quel
quadro!
L’acqua
del mare riempiva quasi due terzi della grande tela rettangolare usata
perpendicolarmente.
Trasparenze
verdastre ne lasciavano intuire la profondità.
Pareva
di sentirne la frescura. La sua immagine mi entrava, attraverso lo sguardo, fin
dentro l’anima.
In
alto, dello stesso colore, ma più leggero e luminoso, si apriva il
cielo.
Mi
godevo ogni pennellata dell’artista, scrutavo ogni sfumatura.
Lo
avrei rubato. E non solo per la sua bellezza.
Sentiva
che mi aderiva, che appagava i miei bisogni più veri.
Mi
placava guardarlo, come un tempo mi placavano antiche ninna-nanne.
Era
un abbraccio materno, protettivo, che tuttavia non mi teneva a
forza.
Bastava
spostare la direzione dei miei occhi dall’acqua all’aria, per assaporare una
grande sensazione di libertà.
Sarà
che sono innamorata del mare.
Pare
aspettarmi quando gli vado incontro. Sempre.
Quel
quadro!
Mi
viene in mente inatteso, a un anno di distanza dall’averlo visto.
E
scopro intatta la gioia allora provata.
Probabilmente
dell’inizio del novecento, dipinto bene, con professionalità.
I
suoi colori mi facevano pensare all’infanzia.
Non
strettamente alla mia, non poteva perché l’ho vissuta tra valli e colline,
lontane purtroppo dal mare.
Pure,
il verde del grano a primavera, quando ancora il sole non l’ingiallisce e il
vento ne muove gli steli, mi pare somigli un poco al suo colore.
Mi
ricordava l’infanzia perché sapeva di buono, di desiderati ritorni, di
fermata.
Benchè
le onde fossero larghe e in movimento, mi raggiungeva una pace che andava oltre
il tempo scandito, oltre le cose.
-Eccomi
mare, abbracciami ancora. Sono tornata. E dolce è la tua carezza che mi
bagna-
C’è
da imparare dal mare!
Ma
più che il desiderio di sapere, mi ha portata la necessità di riconquistarmi, di
ritrovarre affetti ed emozioni creduti dimenticati.
Ieri
hai abbracciato quell’uomo. E’ rientrato in te, rifiutando la sua esistenza. E
tu gli hai aperto le misteriose porte dell’inizio e della fine.
Mi
trovo disorientata, non riesco ad associarti sensazioni di paura e di
morte.
Ma
c’è chi viene da un altro viaggio, un lungo viaggio dentro la
sofferenza.
E
la tua acqua, per loro si fa nera.
Perché
non sono solo il sole e il cielo a darle colore. Anche i nostri
sentimenti.
Comincia
la bella stagione.
Incontro
qualcuno che, raccolto, lo sguardo su di te, cammina lentamente.
E
i passi hanno un senso e vanno lontano.
Mi
scuote la gioia di un bimbo che gioca con il suo cane.
Rido
dentro con lui.
Ecco,
mi riconosco.
In
questa solitudine, ogni volta mi ritrovo.
Per
poi perdermi di nuovo nell’altra grande solitudine della vita che corre e
calpesta.
Né
si può evitare di essere travolti.
Il
mare …
Ma
so di parlare di te.
E’
presto per riuscire a farlo apertamente, spudoratamente.
Posso
solo dire di alcune cose che ti somigliano, come nei sogni, quando la realtà
assume volti diversi e veste, nascondendoli, i nostri segreti.
Per
renderne accessibile l’espressione.
Mi
sei mancata da pochi mesi, ma per me sei più viva di prima.
La
tua presenza si è come dilatata, mi accompagna ovunque.
Così
sei il mio mare e il mio celo, e pianta e terra ed erba.
Sei
anche un po’ me stessa, la mia parte migliore.
E
dimentico di averti così tardi capita.
Però
mi fa impazzire la mia incomprensione di quello che è accaduto.
Mare,
dammi la rassegnazione.
Se
puoi, addolcisci il mio dolore.
Ma
non parlarmi più d’eterno.
foto di Azione
Creativa