Capitolo XIII
LA SCUOLA
(BEN PIU’ REALE DEL RE
È IL NOSTRO “ FAI DA TE”)
A Reale le
attendeva l’esperto.
Era uno
psicologo anzianotto, con la barba bianca e lo sguardo dolce da nonno. Ci
teneva a realizzare il suo progetto. Era il suo sogno. Era riuscito a ottenere un finanziamento,
ma la cifra non bastava e aveva bisogno di collaboratori volontari. Il preside
di Anna gli aveva offerto l’aiuto della sua scuola, per questo la nostra
tessitrice lo aveva raggiunto portando con sé le sue amiche.
Reale è un
nome assolutamente inadatto a questo paese.
Questo posto è un fantasma, un luogo assurdo, partorito troppo in fretta, perché possa essere vero. Senza futuro, perché senza passato; esistente per sbaglio, per un errato concetto di benessere. Un paese rubato alle sue radici, senza più storia e senza più senso. Rubato anche alla sua bellezza, perché la bellezza ha bisogno di tempo per essere coltivata e per crescere. Non basta riempire uno spazio, gonfiarne le dimensioni, per rendere un luogo attraente. Bisogna aspettare che dentro vi crescano un cuore, i nervi, una testa, la sua faccia. Solo allora lo spazio avrà la sua vita. Mille volte meglio abitare in tuguri diroccati e scomodi, ma amati. Mille volte meglio, che in questi palazzoni senz’anima, che ingigantiscono il senso della solitudine e dell’estraneazione. Dell’angoscia. Palazzi cresciuti troppo e troppo velocemente, senza lasciarsi segnare dalla vita di chi, suo malgrado, si ritrova a passarcela. E queste larghe piazze vuote non appartengono, come non sono sentiti propri i monumenti innalzati, soprattutto per dare gloria all’artista che li ha ideati.
Questo posto è un fantasma, un luogo assurdo, partorito troppo in fretta, perché possa essere vero. Senza futuro, perché senza passato; esistente per sbaglio, per un errato concetto di benessere. Un paese rubato alle sue radici, senza più storia e senza più senso. Rubato anche alla sua bellezza, perché la bellezza ha bisogno di tempo per essere coltivata e per crescere. Non basta riempire uno spazio, gonfiarne le dimensioni, per rendere un luogo attraente. Bisogna aspettare che dentro vi crescano un cuore, i nervi, una testa, la sua faccia. Solo allora lo spazio avrà la sua vita. Mille volte meglio abitare in tuguri diroccati e scomodi, ma amati. Mille volte meglio, che in questi palazzoni senz’anima, che ingigantiscono il senso della solitudine e dell’estraneazione. Dell’angoscia. Palazzi cresciuti troppo e troppo velocemente, senza lasciarsi segnare dalla vita di chi, suo malgrado, si ritrova a passarcela. E queste larghe piazze vuote non appartengono, come non sono sentiti propri i monumenti innalzati, soprattutto per dare gloria all’artista che li ha ideati.
Poco distante
da Reale, piangono i ruderi della vecchia Reale abbandonata, che sarebbe stata
pronta a resistere a tutto, ma non al disamore. E con lei soffrono anziani
senza più posto per i ricordi e adulti senza appoggi per il futuro. E i
ragazzi? Qui i ragazzi crescono in fretta. E vanno via anche in fretta. Perché
senza le fondamenta le mura crollano. Il dottor Piero non voleva veder crollare i suoi ragazzi. Pensava, con la realizzazione della sua scuola, di
puntellarli, di dare loro stabilità.
Aveva fede
nel suo progetto. Pur essendo un senza Dio, era pieno di fede.
Il treno
arrivò alla stazione di Reale che si stava facendo buio. Le donne scesero in
silenzio, non era necessario scambiarsi commenti inutili. Sapevano dalla partenza che la meta
che avrebbero raggiunto non era una località turistica per trascorrerci una vacanza.
Le accolse il
buon Piero con il suo più dolce sorriso, quando Anna, indovinando chi fosse, gli
andò incontro. Mentre camminavano insieme, verso la fermata dei taxi, lui e le
nostre tessitrici parlavano come vecchi amici. Complici.
Anna gli
disse - Dovremo prenderne due, siamo in troppi.
E il dottore
- E meno male! Anzi, siamo ancora in
pochi. Ma l’importante è iniziare.
I due taxi
partirono l’uno avanti l’altro, andando dalla stazione, verso la bella collina
verde, oltre Reale nuova e ai margini di quella vecchia. In alto si scorgeva
l’antico palazzo Bennati, restaurato com’era prima che la terra tremasse.
La strada,
uscendo da Reale nuova, saliva toccando appena la Reale disastrata, e poi
continuava verso il palazzo. La vista della città morta stringeva il cuore:
ormai si era fatta cimitero, testimonianza
del tempo oltre il tempo, non più vita, ma storia. Il verde cresciuto
negli anni, con calma, tra un rudere e un altro, lasciava immaginare la
bellezza dei luoghi integri un tempo, addolcendone l’atrocità del dolore per
la distruzione subita. Qualche affresco affiorava con i suoi colori e
le sue immagini ancora visibili, e s’indovinava dove una volta c’era una bella chiesa. Pezzi sparsi di
antiche colonne e qualche statua monca affioravano, testimoniando che il paese, prima della tragedia, era stato davvero degno di un re.
Dopo averlo
appena sfiorato, quasi per non profanarlo, la strada s’incurvava dirigendosi in
alto, verso la cima del colle. Alla fine della strada, nell’uno e l’altro
ciglio, resistevano due panchine di pietra bianca che mostravano tutti i loro anni,
tuttavia erano ancora ben salde, sotto un folto gruppo di pini dalle chiome elettrizzate
,che facevano la guardia graffiando il cielo.
Superati i
pini, il belvedere da dove s’intravedeva, tra la foschia, la vallata che il
treno aveva appena attraversato, appariva a sorpresa. E, sul belvedere, dietro
un meraviglioso cancello di ferro battuto nero, ricamato come pizzo francese,
c’era un giardino, con cerchi di pietre luccicanti stracolmi di ortensie blu,
bianche e rosa, al culmine della loro fioritura.
In mezzo al
giardino, l'edificio: erano arrivati, quello era il palazzo Bennati, lì
avrebbero realizzato la loro scuola. E la bella immagine faceva ben sperare.
Veruska
esclamò – Che meraviglia questo cancello! Un vero capolavoro!
Quasi le
dispiacque quando il dottor Piero, scendendo dal taxi, si apprestò ad aprirlo
velocemente nascondendone la bellezza.
La giovane
muta, attraversando il giardino, faceva mille gesti di gioia.
-Sì, brava!- le
disse il dottore– Sono ortensie.
Rosa esclamò - Con chi sta parlando? Marella è muta, non se n’è
accorto?
-Sta parlando
– chiarì, il buon uomo - Siete voi che non conoscete la sua lingua! Non sapete
che esiste il linguaggio dei segni? Non ditemi che non vi siete accorte! Si sa
pure ben spiegare la piccola!
Continuò per
un po’ a comunicare magicamente fitto fitto con la giovane muta e poi, rivolta
a Rosa, disse - A proposito, non si chiama Marella.
Rosa, ridendo -
E come?
Il dottore, divertito,
fece con la sua mano, curvando il pollice e l’indice, il segno di una mezza
luna attorno all’occhio sinistro - Si chiama così! Non conoscete nessun’altra
con questo nome, vero? Probabilmente l’hanno scelto per via dei suoi begli
occhi azzurri.
Le tessitrici
erano eccitatissime per la bellissima scoperta.
Anna pensava -
Ci vorrebbe Mitria, cosa darei per sentire il suo commento!
Clessidra si
avvicinò alla giovane muta e, fermandosi di fronte a lei, fece lo stesso gesto
del dottore e poi la baciò sulla guancia. – Perdona la nostra ignoranza!- le disse con emozione.
Ed entrarono
a braccetto nel palazzo, seguite dalle altre che parlavano concitate,
riempiendo di echi le volte delle stanze e dei corridoi.
Il dottore
esclamò - Finalmente un po’ di vita qua dentro!
Nessun commento:
Posta un commento