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mercoledì 20 giugno 2012

IL NASCONDIGLIO







Il nascondiglio di Milvia Di Michele


foto di " Viaggio nel mondo"

Me ne stavo rannicchiata in quell’angolo scuro della cantina, nascosta tra un vecchio armadio e sacchi pieni di non so più che cosa.
Avevano smesso di cercarmi.
Le loro voci, prima affannate e lontane, adesso diventavano chiare.
Riuscivo a comprendere le parole, ascoltare i sospiri.

Probabilmente si stava facendo buio e per questo tornavano a casa, disperati e rassegnati, non immaginando quanto fossi vicina.
Non avevo più paura. Li sentivo non arrabbiati con me, ma preoccupati per la mia sorte.
Però non mi decidevo ad uscire dal mio riparo, diventato per me quasi una prigione.
Tutto per un gattino pieno di pulci!
...............
 

Mio padre, qualche ora prima, dopo avermelo visto di nuovo in braccio, aveva perso la pazienza e mi aveva lanciato il cappello.
-Massere!- era stata la sua minaccia, e non aveva aggiunto altro.
-Stasera!- E questa parola mi era cresciuta dentro, facendomi tremare.

Ero corsa da mia madre che stava sistemando le fascine, attaccandomi alle sue gonne.
-Vattene, pi piacire! La legna te po’ pizzicà!-

Povera mamma! Se solo avesse immaginato il mio stato d’animo!
Mi ero sentita persa. Ero corsa affannosamente verso la cantina, scendendo precipitosamente i gradini che vi conducevano e scegliendo l’angolo più buio, quello che poteva nascondermi meglio e mettermi in salvo.

...........

Rimasi a lungo, immobile, finché, improvvisamente, provai la sensazione che il tempo si era fermato, che avevo varcato i confini dello scorrere delle ore e dei fatti.
E finalmente non avevo più paura, non solo per le voci che sentivo amiche, anche perché quel luogo e quel momento mi erano diventati estranei.

Sentivo il cuore battere, i pensieri scorrere, ma questi avvenimenti accadevano dentro il mio corpo: la realtà esterna era sospesa, mi sentivo cosa viva in un mondo inesistente.
Ma forse ero assente anche a me stessa. I miei sensi sembravano essersi allontanati, come appartenenti a qualcun altro.

Veramente presente era solo la mia mente.
Avrei potuto restare ferma all’infinito, lasciare il mio corpo come una casa disabitata, partire per un lungo viaggio, senza attraversare alcuna terra, o mare, o cielo.

Stavo imparando il gusto di camminarmi dentro, di conoscermi oltre l’apparenza, di scoprire la mia anima.
Alcuni pensano che sia un percorso pericoloso, una specie di malattia che può farci perdere. Però mi piaceva.
 
..................
 

Altre immobilità amavo e amo ancora. A volte rimango fissa, lasciandomi penetrare dal mio ambiente. Di nuovo la natura diventa il mio sangue e la mia carne, il mio respiro.
Sento gli alberi crescermi dentro. Mi trasformo in vento e sole, terra scura, arata di fresco.
Il limite del mio corpo si sposta, scompare qualsiasi separazione tra il mio dentro e il fuori.

E mi ritrovo a non essere né l’uno, né l’altro, pur ben sapendo di esistere.

Riesco a perdermi anche in altri ambienti, posti dove, immedesimarsi è proprio meno romantico, dove non c’è bellezza e non c’è armonia. Nemmeno un po’ di pace.Luoghi affollati di gente che grida, o magari ride, che corre affannata o s’incanta a guardare.
Sempre, se voglio, il mondo può venirmi dentro, ed io gli lascio il posto e vado via.

Deve esistere un luogo, una vita parallela che, invisibile, pure ci circonda.
Un mondo senza confini, senza spazio, né tempo, che ci comprende sempre, perché già ci contiene in ogni nostra possibilità di essere.
A volte, mi pare di sentirne la presenza …

................


-Fia mì! … Core mì! … duva stì!!!!-( figlia mia, cuore mio, dove sei?)
Il grido di mia madre bucò il mio silenzio.

Mi chiamò con tale forza da raggiungermi e obbligarmi a uscire, quasi partorendomi di nuovo.
Balbettai – ecme!- ( eccomi)
Tremavo. Vennero a prendermi e finalmente mi portarono via dal mio nascondiglio.
Avevo le gambe indolenzite e il viso tutto bagnato di lacrime.

Quanto mi festeggiarono!
Mamma mi mise seduta sulle sue gambe, fece portare la scatola di cartone, quella dove aveva riposto le poche cose d’oro che possedeva, e cominciò a ornarmi con le sue catenine.
Le mie sorelle e i cugini mi stavano addosso, incuriositi e un po’ gelosi di tanta immeritata attenzione.
Dietro di me, la presenza di mio padre, come sempre, mi dava forza.

In cerchio, intorno, gli altri si erano raccolti in più file.
Eravamo una famiglia numerosa, ventiquattro parenti sotto lo stesso tetto: zii, nonni, cugini…
Erano stati tutti a cercarmi, avevano frugato con lunghe canne fin dentro il fosso.
Che regalo prezioso avevo ricevuto!

……………

Ancora oggi, dopo tanti anni, mi sorprendo a desiderare fughe e ripari.
Tuttavia mi trattengono i legami, la necessità della mia presenza.
Mi trattiene ancor più la mancanza di un urlo che non potrà mai più raggiungermi, un grido che non potrà più cercarmi.
C’è un’altra voce ,ora ,che spesso mi vuole, mi lusinga: è la mia.
L’antico bisogno di chiusura non si è mai placato.
Appena posso, mi rintano e salgo strette scale a chiocciola impolverate, cunicoli lunghi e bui.
Fatico dentro labirinti familiari, dai percorsi sconosciuti, cambio direzioni, deviazioni: è sempre una grande avventura.
Il mio corpo pare in perfetta tranquillità, mentre mi rovisto dentro.

Più di una volta mi sono inventata una chiamata inesistente per tornare alla luce, per riconquistarmi i sensi e aprirmi la posta al reale.
Vale la pena sempre.
Ci sono affetti più forti di ogni paura, più caldi che qualsiasi nascondiglio.

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