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mercoledì 18 febbraio 2015

L'ORTO



...perché essere poveri non è una colpa e perché nessun povero perda mai la sua dignità e il desiderio d'essere felice

e perché il nostro mondo sia un mondo di pace

L'ORTO

 
C’era un orto dietro la vecchia casa.

 Era un rettangolo stretto di terra isolato da una fitta siepe, che lo circondava su tre lati. In mezzo alla siepe si facevano posto un grande albero di alloro, uno più piccolo di melograno e un’altissima pianta di sambuco con i cui frutti, noi bambini, giocavamo sporcandoci sempre con nostra grande soddisfazione. Limitavano l’orto anche il nostro gallinaio,vicino al quale mio padre faceva la “ role” di piantine di pomodori e il muro della stalla dei nostri vicini coperto, in parte, da folti rami di rosmarino.


 Mi piaceva andarci.
Osservavo crescere gli ortaggi: rettangoli di rape, finocchi, insalata riccia e a foglie larghe, carote.

 Verso la fine dell’estate la capanna ricopriva tutto l’orticello come una tettoia golosa e profumata: grappoli di uva nera e, più su, di colore bianco oro, si gonfiavano tra i pampini ancora verdi e lungo i pali di cemento attorno ai quali si attorcigliavano le viti.
C’era un angolo che però non amavo, anzi era la mia grande vergogna: vicino al gallinaio c’era una casetta di legno stretta e alta, coperta da una tendina ricavata da un sacco vecchio. Quello era il nostro bagno. Non avevamo altro.
A lavarci ci adattavamo in casa con bacinelle e brocche, ma per il resto era tutto lì. Ed i tempi erano già diversi.


 Fu così che cominciai a fantasticare e abbellii con l’immaginazione quello che neanche il più bravo pittore avrebbe potuto rendere bello. Fantasticavo e immaginavo, infine ci credetti anch’io e dissi tutto alle mie amiche.


 Mi invidiarono.


Ben presto quella casetta diventò per me motivo di vanto. Tutte avrebbero voluto poter raggiungere, attraverso quello strano e inadatto ingresso, il paese delle fate che invece era accessibile solo per me, perché io ne ero la proprietaria.
Raccontai di ampi prati verdi dove l’erba era più morbida e alta che altrove, di amici che avevano il dono della magia e che, ogni giorno, mi invitavano alle loro feste e mi offrivano dolci squisiti mentre, intorno a noi, si diffondeva una dolce musica.
Per loro ero importante, mi ascoltavano sempre con grande interesse. Ero l’ospite più atteso e desiderato della terra.


Poi si faceva sera e si tornava a casa. Ognuno alla sua casa.
Ricordo che sentivo l’amaro in bocca mentre facevo finta che andasse tutto bene e il mio viso assumeva quella strana aria di sufficiente contentezza dipinta sul volto di quelli con cui la vita è un po’ più in debito.
Ma questo, allora, io non lo sapevo.
Pensavo che la nostra famiglia fosse povera per colpa nostra e, vergognandomene, cercavo di nascondere agli altri questo gran peso.

Comunque, per qualche tempo, riuscii a convincermi che non mi mancava niente, che addirittura ero più fortunata di altri.


Andò avanti così per un po’, ma non poteva durare per sempre.
Facevo sempre più fatica a inventare le incredibili avventure che volevo accadessero dentro quella strana tenda di tela di sacco.

Le mie amiche iniziarono a dubitare e, pian piano, persero interesse ad ascoltare le mie storie.

D’altra parte anch’io ero un po’ stanca e un po’ pentita.
Finì tutto lentamente, quasi in modo naturale.
Mi rimase però una specie di insegnamento, una linea di comportamento da seguire.


Da allora imparai, ogni volta che qualcosa mi rendeva triste, a fare finta di niente. Annullavo l’accaduto. Se non mi riusciva mi spostavo altrove con un grande volo di fantasia.
Creavo sogni anche di giorno ed erano uno più bello dell’altro.


La notte, però, prendevano vita indipendentemente da me e sapevano di realtà più che la realtà vera: c’erano fantasmi e mostri che mi tormentavano, rancori e odi e, sempre presente, l’immagine della morte con la sua falce d’argento in mano.


Furono anni pieni di sofferenze.
Intanto gli altri tracciavano le linee della loro vita, e mi parevano tutte dritte, tutte in salita.
Quante curve, la mia! Mi si aggrovigliava addosso perché non riuscivo a tornare dentro di me. La fuga dalla vita reale non era più un gioco, era una specie di malattia che in parte ho vinto, ma che ha, a volte, dei ritorni.
 

Perchè ti racconto questo?


Vedi...i bambini hanno una grossa magia e ,per non soffrire, sanno andare dove il dolore ha fine.
Non fuggono la realtà, la vincono inventandosi mondi fantastici.
Anche i grandi, a volte, sanno farlo.
Ascolta ora un mio sogno. Non uno di quei deliri notturni che spesso mi piace raccontare: una goccia di futuro.


Ascolta: immagina l’anno 9999 ( la data la puoi anche cambiare)
La terra sarà certamente diversa. Strane città per il gusto di oggi, strano modo di vestire.
Forse strani uccelli solcheranno un cielo più ricco di colori. Piante nuove e nuovi fiori.
Non ci saranno più alcune specie di animali, altri saranno più grandi, altri ancora di dimensioni minori.
Ci saremo sicuramente ancora noi:più sereni, più belli, meno stanchi.
Avremo meno malattie, parleremo più dolcemente.
Ci sarà per ognuno la sua occasione e il suo tempo.
Ci aspetteremo a vicenda.
Andremo ogni giorno a parlare con i nostri morti. Poi saluteremo i nuovi nati.
E, non sapendo ancora cosa siano la vita e la morte, faremo di noi grandi cerchi per parlare e cercare di capire.
Saremo tutti piccoli Dei mortai perché ognuno avrà recuperato se stesso.
Sarà l’anno 9999 ( la data la puoi anche cambiare)

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